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 2022  giugno 28 Martedì calendario

In morte di Raffaele La Capria

Emanuele Trevi per il Corriere
Chi ha conosciuto e frequentato a lungo il nostro indimenticabile La Capria, scomparso ieri a 99 anni, ha assistito molte volte al momento in cui quell’uomo incapace di mentire e ancor meno di dissimulare si scocciava. Nessuno più di lui amava la compagnia degli amici, la conversazione, la confidenza tra intimi. Ho sempre creduto che se la sorte gli ha concesso una vita così lunga e piena di giorni felici, è stato per compensarlo della generosità con cui disponeva del suo tempo. Riusciva (caso più unico che raro) a voler bene anche a quegli imperturbabili rompiscatole che assillano la vita dei grandi scrittori, sottoponendogli manoscritti e idee bizzarre di ogni tipo.
Eppure, tanto quanto stava bene con il prossimo, La Capria si scocciava. Noi amici più esperti scommettevamo sul momento esatto della metamorfosi. Come i bambini, iniziava a smaniare per alzarsi da tavola: anche nelle occasioni più ufficiali, magari organizzate apposta per lui («Ma come Dudù, aspettiamo il dolce!» lo imploravamo; e lui, con la più convincente e irresistibile delle espressioni: «Ma quanto dobbiamo aspettare ancora???»). Il suo adattamento sociale, la stessa perfezione inimitabile dei suoi modi, ricavavano da questa variabile un tono di autenticità impagabile. Non solo le cene troppo prolungate, ma anche i discorsi eccessivamente analitici gli facevano lo stesso effetto.
Uno degli aneddoti che ricordo sempre, perché mi sembra estremamente rivelatore, risale ormai a molti anni fa. Lo avevo accompagnato a un convegno di studiosi di letteratura. Alcuni oratori, tutti accademici di rango, avrebbero letto delle relazioni sull’opera di La Capria. Ne era sinceramente onorato, ed era anche curioso di sapere cosa quegli studiosi avevano visto nella sua opera. A un certo punto, ho notato che armeggiava nervosamente con i comandi dell’apparecchio acustico. Sfruttando l’orecchio più sano, riuscii in qualche modo a chiedergli se sentiva male, e se voleva che lo aiutassi ad alzare il volume dell’apparecchio. «No, semmai funziona troppo bene», mi rispose con quel mali-zioso candore degno di Totò che a volte tirava fuori, «sto cercando di abbassarlo!». Anche le lodi e i riconoscimenti avevano il potere, se protratti oltre una certa soglia di sopportazione, di scocciarlo.
Credo che La Capria avesse realizzato, nella forma della sua vita come nel ritmo ammaliante della sua prosa, un’idea antichissima di sapienza, che ricorre nel tempo a intervalli imprevedibili. A volte mi faceva venire in mente un saggio taoista, capace di tenere in bilico due verità contrarie nella stessa frase; ma c’era in lui anche qualcosa che lo accomunava ai grandi viandanti romantici, inebriati dalla bellezza di un fiore, di un insetto, di un ruscello fino al punto di riconoscere in quel minimo frammento di realtà la musica del Tutto. E non c’era cosa che scrivesse che non fosse la diretta conseguenza di questo modo così autentico, così privo di impalcature intellettuali, di stare al mondo.
Ne fanno fede gli splendidi articoli che per tanti anni ha scritto per questo giornale: in La Capria non ha senso distinguere lavori «maggiori» e «minori», perché a contare, nella sua scrittura, è sempre e soltanto il particolarissimo, irripetibile legame tra l’occasione fornita dal mondo e il suo riflesso interiore. È in quel rapporto tra lo stimolo e l’elaborazione poetica che per La Capria si gioca la partita della forma, dello stile: che è pur sempre la più importante che a un artista tocca giocare.
Tante volte mi è stato chiesto da dove cominciare a conoscere l’opera di La Capria. Ho sempre consigliato di procedere a ritroso, tenendo da parte Ferito a morte, il capolavoro del 1961 pubblicato sulla soglia dei quarant’anni, invero congedo dalla gioventù fatta di tante «belle giornate» ma anche di letture intense e prolungate della grande tradizione modernista, da Joyce a Faulkner passando per l’amatissimo Eliot, di cui La Capria tradusse i Quartetti. Io arriverei a Ferito a morte, questo capolavoro che riesce a sorprendere ad ogni rilettura, come se avesse il potere di nascondere sempre qualcosa di nuovo, facendo il giro largo, vale a dire dopo aver goduto i libri più significativi della maturità (come L’armonia perduta del 1986) e della vecchiaia – primo fra tutti la struggente Amorosa inchiesta (2006), bilancio di una vita considerata dal punto di vista dei rimpianti e delle consapevolezze tardive: troppo spesso ci si vanta in modo insensato di non avere rimpianti, come se non fossero anche loro una linfa dell’esistenza). E non va dimenticata l’alta gioielleria dei racconti brevi, organizzati in raccolte praticamente perfette come Fiori giapponesi (1978) e La neve del Vesuvio (1988).
Generosità
Riusciva a voler bene anche agli imperturbabili rompiscatole che assillano sempre gli scrittori
con manoscritti e idee bizzarre
Come il suo grande amico Goffredo Parise, La Capria ha impresso forti discontinuità alla sua maniera di scrivere, tentando strade nuove quando in lui si faceva forte, anche in maniera dolorosa, il senso dell’inadeguatezza del linguaggio alla multiforme, labirintica ricchezza della percezione e del sentimento. Ogni libro, mi disse una volta, deve contenere qualcosa dell’energia, della fame di futuro, della necessità di un esordio. Non solo: nella sua lunga vita, La Capria ha sperimentato sia la pienezza del successo, sia la sensazione di essere stato dimenticato (proprio su queste pagine, raccontò l’angoscia di uno scrittore che non trova le sue opere in una grande libreria del centro). Ma è meglio affrontare periodi di latenza e di incertezza che ripetere ciò che è piaciuto al pubblico, o alla critica, come se non fossimo capaci di muoverci da lì.
Dopo il successo di Ferito a morte, coronato dal Premio Strega, La Capria attraversò un lunghissimo periodo di crisi. Valentino Bompiani lo supplicava di dargli un nuovo libro, gli offriva soldi, ma lui non si sentiva più in grado di fare nulla di buono. La bibliografia parla chiaro: il libro successivo al capolavoro, Amore e psiche, uscì nel 1973, vale a dire ben dodici anni dopo! E se La Capria non riempì quel vuoto con parole inutili, è perché, da vero artista, sapeva che l’importante non è usare la propria voce, ma cercarla, non smettere mai di cercarla. E la cosa che più gli dava gioia, considerando la propria vicenda, è il fatto che, ad ogni svolta del suo cammino, puntualmente si presentava una nuova generazione di critici e di lettori, pronti a ripercorrere le sue pagine come se fossero state scritte apposta per loro.
In questo mondo non c’è nulla su cui scommettere, ma sono convinto che questa capacità che hanno i libri di La Capria di durare nel tempo, di suscitare nuove adesioni, sia tutt’altro che finita con la sua morte. Troppo prezioso è quel sodalizio di libertà e necessità che si respira nei suoi li-bri, troppo illuminanti le sue storie fatte di niente, troppo toccante la compassione riversata su uomini e animali per immaginare facilmente un sostituto.
Che si sopravviva in ciò che si è scritto, il più delle volte è una semplice petizione di principio, priva di riscontri. Ma il luogo comune è singolarmente vero e credibile quando si parla di La Capria, perché ciò che ha scritto è stato esattamente il suo modo di collocarsi nello spazio, nel tempo, fra i suoi simili. È questo il tipo di pensieri con i quali tento di ammansire il mio dolore, di farmene una ragione.
Un uomo giusto com’è stato La Capria si è meritato una morte simile alla vita meravigliosa che ha vissuto. Tra poche settimane, il 3 ottobre, avrebbe compiuto cento anni. Negli ultimi tempi, gliene parlavamo come di un traguardo ormai prossimo, quasi visibile. Ma quando si toccava l’argomento, non mi sembrava entusiasta. Come se ci avesse intravisto qualcosa di antipatico, in quella cifra tonda. E soprattutto, come se in lui fosse rimasto inalterato, fino all’ultimo respiro, quello che forse è il più profondo, il più saggio insegnamento dei suoi libri: perché si realizzi la pienezza dell’esistenza, è necessario che a quell’esistenza manchi qualcosa, che la misura non venga mai colmata fino all’orlo. Si addicono perfettamente a La Capria quei due famosi versi di Hofmannsthal in cui sembra riassumersi tutta la saggezza umana: «con lieve cuore, con lievi mani/ la vita prendere, la vita lasciare».

Francesco Erbani per la RepubblicaRaffaele La Capria, che ieri se n’è andato a quasi cento anni, è stato uno scrittore e un intellettuale di sapienza raffinata eppure mai esibita. In un saggio uscito nel 2001, Lo stile dell’anatra, sosteneva che, al pari del palmipede che senza sforzo apparente fila sul pelo dell’acqua, mentre sotto agita tumultuosamente le zampette, così la scrittura e anche il pensiero dovrebbero procedere senza frenesie e singhiozzi, senza lasciarsi prendere dalla foga e scansando ogni forma d’artificio.La sua eraevidentemente un’aspirazione letteraria, ma anche una predilezione intellettuale e di vita: lo stile dell’anatra, scriveva La Capria, è quello che «non si lascia trasportare dalla corrente che scorre lungo tutto il secolo breve e lo caratterizza in modo particolare ed eccessivo privilegiando gli “stili dell’estremismo” (l’espressione è di Alfonso Berardinelli, ndr ),ma risale verso la sorgente, dove l’acqua è più chiara e meno turbata». Moltissimo del La Capria romanziere e uomo è contenuto in queste parole: l’eleganza mai ricercata del parlare, la mitezza dell’argomentare, condita da un’ironia che scorreva limpidamente nel suo eloquio, il rifiuto di apparire, di presenziare, il disdegno per l’eccesso. La Capria avrebberealizzato senza alcunafatica il suo ideale, il suo personalissimo stile dell’anatra, se a rendere più intrigante il cammino non fosse intervenuta una circostanza: l’essere napoletano. Nel capoluogo campano nacque nel1922. Famiglia borghese, frequentatori entrambi i genitori della buona società, quella dei circoli nautici e del gioco. Un’adolescenza increspata dai rovesci finanziari del padre. Ma nel complesso lieta, come raccontato nel romanzo che a La Capria ha datola fama, oltre che il Premio Strega, Ferito a morte (1961).
Nelsuo essere napoletano LaCapria si è mantenuto al riparo da ogni tentazione rivendicativa o autoconsolatoria. Eppure un fluido sottile e intenso, generato dalla città d’origine, scorre in tutta la sua produzione. Nei luoghi (il palazzo Donn’Anna, a Posillipo), nelle metafore (“la bella giornata”). Nelle battaglie civili: è sua la sceneggiatura del filmLe mani sulla cittàdi Francesco Rosi, amico dal liceo (gli altri suoi compagni di scuolasono PeppinoPatroni Griffi, Antonio Ghirelli, Francesco Compagna, e il più giovane Giorgio Napolitano). E dedicate alla sua città sono anche alcune riflessioni pacatamente storico- culturali. Di Napoli La Capria parla inL’armonia perduta (1986), seguendo un delicato filo di sutura fra memoria e immaginazione, storia e letteratura: Napoli è una “città incompiuta” che ha smarrito la propria armonia dopo la strage dei patrioti che nel sangue concluse la Rivoluzione giacobina del 1799. Tesi ricorrente in molta letteratura. CheperòLa Capriaaggiornaconun rilievo antropologico. Dalla tragedia e dal martirio si è proceduto con un simulacro di quell’armonia, la napoletanità, una costruzione artificiale che si proponeva, sotto forma di finzione e di recita, di replicare la sublime, ma immalinconita consonanza fra uomo e natura. La canzone fine Ottocento, primi Novecento ne è un vessillo. Un succedaneo più falsamente popolaresco è invece la napoletaneria, priva persino del garbo e del disincanto della napoletanità. È come se, agli occhi di La Capria, la storia di Napoli si fosse incagliata nella frattura fra l’intellettualità e la plebe, una frattura per niente sanata se, duecento anni dopo, celebrando alTeatro San Carlo con un’opera lirica una delle protagoniste della rivoluzione, Eleonora Pimentel Fonseca, un gruppodi persone (l’episodio è raccontato da La Capria) accoglieva il pubblico inalberando gigli borbonici e urlando «Puttana, puttana», come se la Pimentel fosse ancora lì con il suo carico di passioni e illusioni.
Lo stile – lo stile dell’anatra – è sostanza. Per La Capria è disposizione mentale, è linearità di scrittura che si accompagna a una limpidità del pensiero che mette al bando il tono declamatorio e risentito. Il suo procedimento è letterario anche quando si misura con un altro dei temi in cui l’essere napoletano condiziona il pensiero: l’identità. «Parole comepadano o vesuviano, celtico o mediterraneo in me suscitano l’impellente desiderio di disidentificarmi, di farmi cittadino del mondo», scriveil napoletano La Capria inLa mosca nella bottiglia (1996), sapendo che su di lui incombe, come su tutti i suoi concittadini, un’identità che la storia ha spesso mostrato nel suo aspetto più invadente. L’identità è virtuosa quando è contemporaneamente forte e aperta, dotata di senso e discreta, intensa e disponibile allo scambio.
Rivolgendosi alla scena della letteratura contemporanea, La Capria rintraccia lo stile dell’anatra in Giovanni Comisso, nella bellezza musicale delsuo italiano, nella chiarezza del suo argomentare. Al polo opposto colloca gli autori che si servono di artifici, da quelli mentali (Calvino) a quelli linguistici (Gadda e Landolfi, Manganelli e Ceronetti, Malerba e Meneghello). I loro libri sono sottoposti a una teoria del narrare che li obbliga, dice. Amano mascherare la propria lingua. Comisso no, Comisso oppone «al labirinto formale novecentesco, al fallimento della consapevolezza e alla tentazione del fallimento la forza disarmante della sua “ingenuità”».
«Sono uno scrittore che non ha mai superato la linea del successo vero. Come diceva Ennio Flaiano, mi considero un minore interessante», diceva di sé. In fondo i suoi libri, in tutto una ventina, sono una specie di lunga storia a puntate al centro della quale si colloca il “poetico litigio” fra se stesso e la suacittà. Senza che questo abbia nulla di angusto, essendosi fin dagli esordi liberato di qualunque contatto con il colore locale: «L’oro di Napoli», diceva, «è un metallo falsificato da troppi e compiaciuti trattamenti».
Ferito a morte, un romanzo che vale un’intera carriera letteraria, è la prima parte di quella storia a puntate e quella storiaun po’la contiene tutta. Il paesaggio è dominato da Palazzo Donn’Anna, Palazzo Medina nel romanzo, metà casamento incompiuto e metà surreale escrescenza marina, che nel 1640 il viceré Ramiro Guzman commissionò all’architetto Cosimo Fanzago per la sua consorte Anna Carafa. Intorno a quell’edificio si svolge la giornata (“la bella giornata”) di un gruppo di giovanotti della buona borghesia, un po’ sfaccendati, un po’ vitelloni, uno dei quali, lo scrittore stesso, è in partenza per Roma. Il romanzo vince lo Strega, ma i giudizi critici sono controversi, soprattutto per la struttura sintattica, mossa e a tratti sincopata. Ferito a morte attraversa il tempo, supera squallide polemiche sollevate dal giornale di Achille Lauro e si impone. Come il Palazzo Donn’Anna, che passa da un libro all’altro, conservando il suo alone di relitto piantato nel mare di Posillipo. Nell’Armonia perduta è il baluardo di una città che sopravvive a se stessa; nellaNeve del Vesuvio
(1988) appare come una pietra pomice corrosadalmareeattraversata da labirinti in cui la voce del mare si mescola a quelleoscure, d’antichi abitanti. La Capria lavora perpiccole variazioni. Negli ultimi vent’anni sono arrivati, fra gli altri, Letteratura e salti mortali (1990), Capri e non più Capri
(1991),L’occhio di Napoli (1994), Napolitan Graffiti (1998).
Nel 2003 le opere delloscrittorevengono raccolte in un Meridiano Mondadori, confezionato con molta cura da Silvio Perrella.
Lamisura e l’armonia non vanno però lette come l’impalcatura superficiale di una serenità d’animo. L’autobiografia gli appariva come una forma esauriente di conoscenza. «Ho creato una vita letteraria di La Capria che forse non corrisponde a quella vera, e che mi sostiene come un corrimano, affinché io non cada per le scale. In tutt’e due ci sono luci e ombre. Più ombre in quella reale, più luci in quella letteraria, perché da scrittore mi sono posto la meta di una certa armonia, che nella vita reale non ha trovato il riscontro giusto. Quando mi rileggo, tutto intero, sento la conferma di quello che sono, anche se in me scorrono due viteparallele».
Alain Elkann per La StampaRaffaele La Capria che per me come per tutti suoi amici era Dudù, ci ha lasciati dopo una lunga vecchiaia. Con lui si spegne uno degli ultimi protagonisti di una grande stagione letteraria italiana.Ci conoscevamo bene perché negli anni Ottanta andavamo l’estate a Capri e molte volte con Alberto Moravia, Enzo Siciliano, Giordano Bruno Guerri, Francesca Sanvitale, Umberto Tirelli e Dino Trappetti e altri andavamo a cena alla pizzeria Aurora. Lui era accompagnato da sua moglie Ilaria Occhini. In quegli anni si parlava ancora di libri, di letteratura, di cinema, di politica, e si facevano risate e pettegolezzi. Dudù era un uomo molto fine, parlava con un accento napoletano un po’ sfumato. Io ero giovane e mi sentivo accettato perché come loro pensavo al teatro, al cinema, alla letteratura, al giornalismo. Moravia, che tra l’altro era il presidente del Premio Malaparte (di cui La Capria più tardi sarebbe diventato presidente), era lo scrittore più autorevole, ma in quelle cene tutti parlavano senza timidezza. Più in là negli anni, mi ricordo che quando Dudù ebbe un infarto, mi trovavo a Roma e andai a trovarlo all’ospedale San Giacomo dove lo avevano ricoverato. Quella grande corsia di altri tempi mi rimase impressa perché sembrava una scena manzoniana. Lui era disteso nel letto e, non aspettandosi di vedermi, si commosse: lì si sigillò la nostra amicizia.
Lui leggeva i miei libri, alcuni li ha recensiti; io leggevo i suoi, e c’era tra noi un rispetto affettuoso e sincero per i nostri scritti. Sia con lui sia con Alberto Moravia la domenica sera andavamo a cena in una trattoria Toscana dietro il collegio Romano, il buco, ed entrambi venivano apostrofati dai cameriri e dal proprietario con il titolo di maestro, e verso di loro vi era come un rispetto particolare, d’altri tempi.
Con La Capria ci univa una conoscenza della lingua e della letteratura americana perché entrambi avevamo esperienze e amici americani. Tra loro ricordo Bill Weaver che fu un traduttore eccezionale e tradusse non solo alcuni nostri libri, ma quelli di Eco, Moravia Calvino, Morante, Bassani.
Mi dispiace non essere più andato a Roma a trovare Dudù negli ultimi anni, nel suo appartamento in via della Gatta nel palazzo Doria Pamphili dove avevamo trascorso molto tempo a chiacchierare del più e del meno.
Ricordo che ero sempre un po’ in ansia perché per casa si aggirava un gatto e io avevo una certa paura dei gatti, ma non osavo dirglielo. Tra le chiacchiere si parlava di altri amici scrittori e si ricordavano gli anni capresi. L’ultima volta ci siamo visti a Napoli, la sua città (che gli ispirò Ferito a Morte, uno dei suoi libri più belli e più tradotti) e con noi, alla Bersagliera, il suo ristorante preferito, c’era lo scrittore Silvio Perrella, un caro amico con cui aveva scritto un libro a quattro mani e che ha curato il Meridiano Mondadori a lui dedicato.
Dudù, ci mancherai: sempre elegante, con le tue giacche di tweed, i pullover, e il foulard legato attorno al collo. Purtroppo, non passeggerai più in via del Collegio Romano con il tuo cane, credo un bassotto, al guinzaglio.
Mirella Serri per la StampaMa io a cento anni non ci voglio arrivare», mi aveva confessato un po’ di tempo fa Raffaele La Capria, per gli amici Dudù, in un momento di abbandono e di profonda malinconia. Si è spento a 99 anni – prima del 3 ottobre, quando avrebbe tagliato il traguardo del secolo – uno dei maggiori scrittori italiani, grandissimo cantore di Napoli ma non della «napoletaneria», il limite, a suo parere, dell’amata città natale. Appena entravi nel suo appartamento romano, all’ultimo piano di uno storico palazzo di Piazza Grazioli, la cui contiguità con quella che è stata per anni la residenza di Silvio Berlusconi lo aveva parecchio infastidito, in bella vista c’erano i due volumi dove era raccolta una scelta della sua opera omnia, i Meridiani Mondadori (a cura di Silvio Perrella). Vincitore del premio Strega nel 1961 con Ferito a morte, il suo romanzo più famoso, narratore e saggista prolifico, incoronato dal Viareggio, dal Campiello e da tanti altri riconoscimenti, La Capria era stato anche sceneggiatore per Francesco Rosi – Le mani sulla città e Uomini contro -, per Luigi Comencini e per Lina Wertmüller. Tutto l’insieme dei suoi scritti – da La neve del Vesuvio a Colapesce, e della sua saggistica, da Il sentimento della letteratura a Lo stile dell’anatra e a La bellezza di Roma – rappresenta un’importante summa del suo impegno civile. Scrittore engagé, raffinato e spesso dissimulato nelle sue battaglie, ha segnato più di una generazione e ha favorito la nascita di una scuola di grandi artisti che va da Paolo Sorrentino a Toni Servillo a Mario Martone, per arrivare a scrittori come Valeria Parrella, Emanuele Trevi, Sandro Veronesi, Edoardo Albinati, Domenico Starnone e Paolo Di Paolo. Già, proprio così. La sua narrativa, malgrado le affermazioni dello stesso La Capria, che si considerava un narratore volutamente ai margini in quanto non tutti i suoi libri avevano incontrato il favore del grande pubblico, utilizza in maniera straordinaria le tecniche narrative provenienti dall’avanguardia letteraria (flusso di coscienza, monologo interiore, polifonia, tempo della memoria) che si intrecciano con la descrizione di Napoli in chiave critica e anticonformista. Gli ambienti dei suoi racconti, ma anche della sua saggistica, sono l’isola di Capri, la costiera amalfitana, il golfo di Posillipo su cui affaccia palazzo Donn’Anna, grandioso scenario di Ferito a morte dove La Capria aveva trascorso la sua infanzia. Anche il racconto d’esordio, Un giorno d’impazienza, dedicato al fallimento di tante speranze e attese resistenziali, ebbe come fulcro la sua città e le famiglie borghesi.Dudù, nel 1942, era partito con il Battaglione Allievi Ufficiali per Brindisi e poi aveva cominciato a collaborare con Radio Napoli, cenacolo per la propaganda creato dagli Alleati intorno a cui si riunirono Antonio Ghirelli, Luigi Compagnone e Rosi, i quali si ritroveranno anche nella bella rivista Sud di Pasquale Prunas. La Capria manterrà per tutta la vita i legami della gioventù, come quello con Giorgio Napolitano, futuro presidente della Repubblica.
Dopo essersi laureato in giurisprudenza nel 1947 e aver soggiornato in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, nel 1950 La Capria si trasferì a Roma. Qui conobbe la bellissima attrice Ilaria Occhini (scomparsa nel 2019, era nipote di Giovanni Papini). Nella capitale, il narratore coltivò nuove amicizie, da Italo Calvino a Goffredo Parise ad Alberto Arbasino e Giosetta Fioroni. Abbigliato sempre in modo molto curato – d’estate, per esempio, panama, giacca e pantaloni bianchi -, era assai lontano dallo stereotipo del gentiluomo napoletano sfaccendato. «Non sono lo sgobbone letterario che costruisce il proprio monumentino giorno e notte, come Pasolini o Calvino. Io scrivo per esprimere le mie idee e i miei sentimenti, non per erigere l’altare a Raffaele La Capria», precisò per sottolineare la sua tempra di lavoratore. Giornalista, collaboratore di riviste e quotidiani, da Il Mondo al Corriere della Sera, fu sempre teso nello sforzo «di far diventare poetico il senso comune». E si ritenne giustamente un paladino del ruolo dello scrittore pronto a svelare le menzogne e a denunciare le “false partenze” (come da titolo di un suo libro), i legami ideologici che a volte impediscono di scorgere la verità. Per questo fu anche un acceso polemista. Così ecco Dudù scagliarsi, in numerosi scritti, contro la «napoletaneria», contro quell’estro così accattivante del partenopeo che finisce per coincidere con il cittadino servile o con l’intellettuale mandarino e sempre pronto a dire sì. A questo contrappose la nobile arte della «napoletanità» praticata da Eduardo De Filippo o da Totò. Eccolo poi partecipare ad accesi dibattiti contro gli imitatori dell’Ulisse di Joyce, di cui lui stesso si dichiarava debitore nella sperimentazione linguistica ma che trovava anche «indigesto e prolisso».
La Capria opponeva al manierismo una concezione della letteratura «come memoria di ciò che gli uomini da oggi e fino a Omero e prima di Omero hanno sentito, sognato, immaginato». Eccolo, infine, al fianco di Sorrentino, per dar vita con il regista alla sceneggiatura di Ferito a morte che poi non andò in porto.
Quando era uscita La grande bellezza del premio Oscar, La Capria si era ritrovato nel protagonista: «Non c’è dubbio, Jep Gambardella un po’ mi assomiglia». Lo scrittore, ha dichiarato Sorrentino, è stato per lui «un faro», utilizzando un’immagine marina che tanto sarebbe piaciuta a La Capria. Ne La vita salvata (un dialogo con Giovanna Stanzione), Dudù parlava della scrittura come di un atto amoroso, «l’ultimo che mi sia rimasto», in cui oggi si riconoscono tutti gli artisti che vedono in lui un maestro o un faro. —