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 2022  giugno 28 Martedì calendario

Una biografia di Adriano Olivetti


Il mio Olivetti è più grande. È più grande ciò che possiede, non tanto la Ditta, quanto le idee, i progetti, il campo largo delle cose fatte, e quello a perdita d’occhio delle cose da fare, il catalogo estroso e festoso del prossimo mondo per cui vuole che tanti siano pronti. E adesso, mentre lo confronto con la narrazione di Adriano Olivetti che Paolo Bricco (scrittore di grande competenza) ne ha fatto per Rizzoli, mi accorgo della differenza e cerco di spiegarla. Nel libro Olivetti è certamente un uomo diverso nel suo tempo, con una strana capacità di vivere il passato, la tradizione, la cultura che c’è, e quella che non è ancora venuta ma profeticamente prevista, una enorme collezione di portatori del nuovo e un vortice di fantasia, di memoria, di invenzione. Bricco segue ogni pista, persona o scuola, sbandamento festoso e invenzione finanziaria e fa comparire in ogni pagina un altro Olivetti.
L’autore di Adriano Olivetti, un italiano del Novecento esegue una straordinaria ricerca di una vita grande e insolita identificando non solo momento per momento ed evento per evento, ma anche componendo una figura completa da cui parte per cercare altro, per cercare di più suggerendo l’immagine di una mutazione continua, in una successione di vite che possono sempre ricominciare e cambiare epoca, luogo e mestiere. Tutto ciò avviene nella fedeltà di un biografo che non rifiuta neppure le notizie minori, occasionali, private, per aggiungere un tratto di esplorazione e di conoscenza del personaggio.
Adriano Olivetti, che io ho incontrato quando ero nella piena felicità di attraversare i vent’anni, stava seduto di fronte a me, dietro una scrivania sgombra (c’era solo una copia nuova del testo di Joseph Shumpeter Capitalismo socialismo e democrazia )
nel suo ufficio di piazza di Spagna e mi teneva nel campo magnetico degli occhi intensamente azzurri, mentre in tono pacato e preciso mi spiegava, senza incertezze, perché, a partire dal lunedì successivo, avrei dovuto andare a vivere e a lavorare a Ivrea. Era il nostro secondo incontro (il primo in una casa di amici a Roma) e Adriano Olivetti sapeva già che ero da un anno giornalista alla Rai e avevo la responsabilità di un programma giornalistico settimanale che si chiamava Orizzonte (redattori Gianni Vattimo e Umberto Eco).
Ancora adesso trovo difficile spiegare come ho fatto a decidere di spostarmi quasi istantaneamente da Roma a Ivrea e dalla televisione a una fabbrica di macchine per scrivere (attenzione al “per” che Adriano Olivetti esigeva, mai dire macchine “da” scrivere) senza saperlo neppure spiegare a me stesso.
La ragione, che ho trovato col tempo e col verificarsi di eventi che allora avevo solo intravisto, era un senso del futuro. Ivrea era piccola e lontana ma, per ragioni che sul momento non avrei potuto spiegare, portavafuturo. C’era futuro nelle conversazioni di Adriano Olivetti, ed era non tanto una promessa quanto la natura e la qualità dei suoi pensieri che a volte erano quasi un fantasticare. Ma di quel fantasticare qualcosa accadeva sempre. Mi ha sorpreso ma mi è sembrata anche una idea avventurosa, come andare nella giungla, quando mi ha detto che per un periodo non avreiavuto un ufficio, avrei fatto l’operaio. «Bisogna conoscere almeno un po’ il lavoro per potersi occupare delle persone che lo fanno», diceva Adriano. Facevo parte di quella folla di giovani che a quel tempo di operai parlava e discuteva moltissimo, ma senza mai averne incontrato uno. «Non mi piaceva il lavoro quando mio padre ha voluto che andassi a impararlo in fabbrica», mi diceva l’Ingegnere nelle conversazioni che a lui piaceva fare il mattino presto, prima dell’orario di fabbrica. Ed è in quelle conversazioni, e nelle volte in cui gli davo un passaggio nella mia Topolino, quando il suo autista aveva sbagliato appuntamento, che mi ha parlato dell’America. Una sera che non ho mai dimenticato, mentre lo accompagnavo alla stazione di Milano, mi disse che sarei andato a New York insieme a Gabetti con due compiti diversi. Il primo di cercare nelle buone università americane giovani dottorandi per lavorare (prima in Italia e poi nel mondo) al nuovo calcolatore elettronico – l’unico in Europa – al quale stava lavorando l’ingegnere Tchou. «Lei sa che abbiamo comprato la Underwood?», mi disse con una faccia giovane, da uomo contento. La Underwood era la più grande fabbrica di macchine per scrivere del mondo, ma i media italiani, attenti alla Confindustria di allora che non amava Olivetti e la sua stravagante politica di fabbriche belle, case operaie con firma di architetti e paghe alte, avevano puntato subito il dito su una fabbrica americana comprata, certo, da italiani con fondi italiani, ma in pessime condizioni, «adesso o fra poco». A quel «fra poco», tanto evocato e desiderato, ci ha pensato il destino, con la morte quasi immediata di Adriano Olivetti e, poco dopo, dello straordinario inventore di quello che sarebbe stato l’unico computer non americano nel mondo (era già pronta anche la versione da tavolo, disegnata dall’architetto Sottsas). Il libro di Bricco colloca con ordine e sequenze implacabili tutti i pezzi che mancano alle storie più note e anche un po’ leggendarie della Olivetti e di Adriano Olivetti. Leggendolo ti rendi conto che anche in un libro si verifica uno strano e inquietante fatto della vita: una persona morta è immediatamente più piccola della stessa persona viva. Anche qui Adriano Olivetti, l’uomo che mi ha portato in fabbrica e mi ha portato in America, ma come parte di un disegno grandissimo sognato, disegnato, realizzato fra bellezza, modernità, innovazione e benessere, è più grande del pur grande personaggio che il libro di Bricco ci consegna. Leggendolo non puoi non rimpiangere l’avere ignorato l’unico monumento possibile per Adriano Olivetti: la colonnina di metallo scuro che negli Anni Cinquanta era piantata a Manhattan, sulla Quinta Strada, all’altezza della 54 strada. La colonnina sosteneva un piano di metallo sul quale era posata una “Lettera 22” con carta già inserita per una prova di scrittura a cui non hanno rinunciato, per anni, decine di migliaia di passanti americani.