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 2022  giugno 28 Martedì calendario

Giorgia Meloni, la più brava di tutti

Nel suo ramo d’impresa è la migliore. Se aveste letto la sua autobiografia – duecentomila copie vendute, qualcuno di voi deve pur averla letta – sapreste che sta alla politica come Chiara Ferragni alla promozione di sé: la più brava di tutti, di tutte. Se non fosse così, del resto, non sarebbe l’unico progetto politico che tiene insieme una sinistra altrimenti frantumata: battere Giorgia Meloni, imperatrice dei sondaggi. Per quanto oggi sia la giornata di gloria del Pd, gloria per un giorno legittima, lo spettro delle politiche, così diverse dalle amministrative, resta intatto: il campo largo è scomparso col polverizzarsi delle stelle, il Centro è affollato come un bar di moda alle sette di sera.
Il rovello di Enrico Letta – l’uomo che vince da immobile, per insipienza degli altri – resta quello: l’unica che si muove con precisione, arguzia, intelligenza politica, l’unica che moltiplica i consensi basta che parli di cani abbandonati, poveri cuccioli, è lei. Yo soy Giorgia. Soy una madre, soy una mujer. Folle fascistissime in deliquio, in Spagna: neofranchisti convertiti al femminismo, nel senso che prendono per la prima volta in considerazione cheuna donna possa non essere solo utile alla riproduzione, una madre appunto, ma anche una leader politica, pensa che stranezza. Per necessità, certo: per assenza di alternative, per manifesta sua superiorità della dote di leadership – così rara nel secolo fragile.
Ora però, anche per Giorgia Meloni si manifesta un problema che certamente ha da tempo già considerato, è sicuro che ci stia lavorando, ma le amministrative di domenica glielo porgono sul vassoio come portata principale. Al suo partito, che in dieci anni passa dal niente al 22 per cento nelle intenzioni di voto, manca una classe dirigente nel Paese. Una rete di persone credibile, preparata, competente, votabile.
Perde nelle elezioni locali perché il voto nelle città è la cartina di tornasole della fiducia delle persone non nei leader di partito, ma nei candidati sul posto, appunto. Che sono il cognato della tua migliore amica, la maestra di boxe di tua figlia, quello che una volta mise la foto di un culo nudo in zoom, il tipo di CasaPound che ha preso a botte tuo nipote e l’ha fatta franca, ma tu lo sai che è stato lui. Li conosci, insomma. Sai molto bene chi sono e alla fine – se non sei proprio un militante di quella falange – preferisci di no.
È un problema, questo, assai comune alle formazioni politiche che crescono molto e troppo in fretta. Che hanno un leader carismatico e dietro niente, o quasi: accadde così all’Italia dei Valori di Antonio di Pietro, per citare un esempio, che finì per raccattare alla rinfusa una classe politica locale riciclata, opaca, pronta a salire sul carro del vincitore pur di restare in sella ma in paese lo sanno, chi sei. Ti conoscono da prima. Come problema supplementare Giorgia Meloni ha quello che dietro alle sue spalle – a quelle dei suoi candidati consiglieri comunali – non c’è propriamente il niente, o una pletora di vecchi ex Dc di provincia privi di miglior imbarco. Alle sue spalle ci sono i fascisti, vecchi e nuovi. Questo è il momento in cui Yo-soy-Giorgia si inalbera, nella lettura di queste righe, o nel riassunto che qualcuno le farà. Non dovrebbe, invece, perché delle due l’una. O il suo distacco dalle origini – la Fiamma tuttora nel simbolo, il Movimento sociale italiano – è autentico e non un bluff, come in tanti pensano. Allora dovrebbe essere più chiara e selettiva, più esplicita nel rinnegare la matrice: puntare a un elettorato conservatore non razzista, non antisemita, non omofobo, non violento, non nostalgico del Duce e, forte della posizione di opposizione al governo, incassare il consenso degli orfani del patriottismo salviniano e del dirigismo forzista. Oppure, al contrario, quell’elettorato – vecchio e nuovo, ripeto: non solo i superstiti del Novecento ma anche i giovani buttafuori delle discoteche con Faccetta nera nella suoneria del telefono – le serve, è il suo, e allora diventa più difficile, francamente, aspirare alla guida del Paese, al benvenuta dell’Europa. L’atlantismo non basta. Non basta la ola di Confindustria, che sta sempre con chi vince.
Giorgia Meloni è bravissima, una fuoriclasse. Non c’è nessuna ironia in queste parole, è una constatazione. Aveva il 3,6 alle Europee del 2014, non abbastanza per superare lo sbarramento del 4. Ha superato il 4 alle politiche del 2018, il 6 alle Europee del 2019, l’8 in Emilia e il 10 in Calabria, alle regionali del 2020. Essere l’unico partito che non partecipa al desco di governo, e ai suoi dividendi, l’ha portata in due anni a triplicare, quasi, i consensi mentre Salvini boccheggia e Berlusconi si congeda fingendo di restare. Perde però quasi ovunque, nelle città: già in passato Enrico Michetti a Roma non era abbastanza, Nello Musumeci in Sicilia non l’hanno voluto i suoi alleati, se ne capisce il motivo. La disfatta di Verona, fino a ieri città nera, è una campana che suona cupa. Si può battere, l’imperatrice Giorgia, la sinistra può farlo: a meno che lei non sconfigga il suo passato ora, subito, con un colpo di reni, per usare quel lessico. Da oggi la partita è questa.