Il Messaggero, 27 giugno 2022
Mizunoko, le statuette dedicate ai bambini mai nati
In Giappone le trovate un po’ dappertutto, all’interno dei templi. Si tratta delle mizunoko, le statuette dedicate ai bambini mai nati. Compresi, e direi oggi soprattutto, i feti, a qualsiasi titolo, abortiti. Che in Giappone, uno dei primi Paesi ad aver legalizzato l’interruzione volontaria della gravidanza (1949) sono decisamente molti, oltre 300 mila l’anno, ufficialmente (ma di fatto molti di più, forse almeno il doppio): per una serie di motivi, di cui parleremo però in un’altra occasione, l’aborto è infatti considerato lo strumento più efficace di regolamentazione delle nascite. Ma torniamo, per il momento alle statuette.
Il termine mizunoko, delicato come solo i giapponesi riescono spesso a creare grazie anche all’inesauribile serbatoio fornito dai caratteri ideografici significa bambini dell’acqua. A Tokyo c’è un tempio, lo Zoujoji, che ne ospita centinaia (www.youtube.com/watch?v=VP4G1Wd_Xag). Un altro, sul Monte Koya, addirittura migliaia. Un’intera collina, all’interno di uno dei più suggestivi cimiteri del Giappone, fondato, si dice, dal monaco asceta Kobo Daishi vissuto nell’ottavo secolo ed il cui spirito ancora si aggirerebbe sul monte, tra le oltre 300 mila tombe, in attesa dell’arrivo di Miroku Nyorai, il Buddha del futuro.
I mizunoko sono facilmente riconoscibili: quasi sempre hanno un berrettino di lana in testa, un bavaglio, a volte anche un grembiulino. Tutto rigorosamente di colore rosso, il colore dei neonati (in Giappone, almeno in questa fase, non si fa differenza, non esiste la distinzione tra azzurro per i maschi e rosa per le femmine). Le statuette hanno in genere le mani giunte, o aperte, con il palmo all’insù, e ai loro piedi spesso c’è un frutto, una ciotola di riso, un dolcetto, amorevolmente posto da parenti, conoscenti, o anche passanti compassionevoli. Alcuni templi offrono anche un vero e proprio servizio di manutenzione, ovviamente a pagamento (e questo è il lato meno spirituale di tutta la vicenda: se pensate che la nostra Chiesa esageri, a volte, nello speculare su riti, cerimonie, offerte, non avete idea della fantasia e del fatturato di certi templi).
I mizunoko, che secondo alcuni comprendono anche i bambini morti subito dopo la nascita (un’altra triste tradizione locale, tutt’altro che scomparsa, è l’infanticidio) sono affidati a Jizo, un simpatico monaco che in genere viene ritratto con la testa rasata, un po’ paffuto, burbero ma anche affettuoso. E soprattutto, instancabile. Il suo ruolo principale (ne ha altri, tra i quali quello di proteggere i viaggiatori, compito non facile, di questi tempi) è quello di sorvegliare i poveri bambini dell’acqua, che, un po’ come avveniva per i nostri bambini morti non battezzati, non potendo andare in paradiso sono costretti a sostare nel Sai no Kawara, una piccola insenatura che si trova sulle rive del Sanzu, il Fiume dei Tre Guadi, quello che le anime decedute debbono attraversare scegliendo il guado giusto e proporzionato al peso delle loro colpe (i più cattivi ovviamente non ce la fanno e finiscono per essere risucchiati dalle serpi che infestano le acque), per poi raggiungere l’aldilà. Molti scelgono la via più sicura del passaggio in barca, che tradizione vuole costi 6 mon, il cui presunto equivalente in monete di corso viene spesso depositato all’interno della bara che si usa per la cremazione.
Ai mizunoko purtroppo tutto questo non è concesso, loro sono destinati a vagare per sempre, senza meta. I nostri perché pur non avendo commesso nuove colpe, non sono stati liberati dal peccato originale, i loro perché, non avendo vissuto o avendo vissuto troppo poco, non hanno accumulato abbastanza meriti per pagarsi il biglietto. Ma ecco che interviene Jizo. Mentre nel nostro caso dobbiamo sperare in un non meglio specificato intervento misericordioso del buon Dio, in Giappone c’è Jizo, che ogni volta che passa da quella dannata insenatura acchiappa qualche bimbo, lo nasconde sotto la tunica o in una borsa che porta sempre a tracolla e lo porta dall’altra parte. L’ho un po’ romanzata, ma in sostanza funziona così.
Perdere un bambino, a qualsiasi titolo e per qualsiasi ragione, rappresenta per i suoi genitori, e soprattutto per la madre, una enorme sofferenza. Una sofferenza che non può e non deve essere scandita, declinata, regolata e sopratutto giudicata solo ed esclusivamente dal punto di vista etico-legale. Di fronte a quello che sta succedendo negli Usa (ma anche molti Paesi europei denunciano un pericoloso arretramento) personalmente trovo che quanto avviene in Giappone sia meno invasivo, da vari punti di vista, e tutto sommato più rispettoso della sensibilità delle donne. Al di là dei diversi valori (nessuno, tranne i pochi cattolici, in Giappone discute dell’aborto in termini di vita del feto, e nel caso, da quando) la questione delle gravidanze interrotte, volontariamente o meno, è gestita e trattata spesso anche attraverso una interpretazione molto generosa della legge, come nel caso del consenso del padre/coniuge/partner, richiesto in certi casi ma al quale spesso i medici rinunciano rispettando il più possibile la privacy delle donne. Ma abortire in Giappone non è un tabù. Oltre ai riti relativi alle statuette dei mizunoko, l’argomento è tranquillamente discusso, soprattutto tra le donne. Ma non in pubblico, sui media, in Tv come avviene da noi. In famiglia, e tra amici intimi, le donne giapponesi parlano apertamente del numero reale delle gravidanze, danno un nome a quelle per qualsiasi motivo non portate a termine e spesso fanno in modo che anche i figli in vita li ricordino.
La tradizione del mizunoko di recente è arrivata anche negli Usa e in Europa. Pare che sia possibile ordinare una statuetta anche in Italia, su Amazon.