il Fatto Quotidiano, 27 giugno 2022
I fratelli Dardenne, dal cinema alla letteratura
Esiste un posto dove non sono più i fratelli Dardenne. Dove c’è il solo Luc (1954), e non Jean-Pierre (1951). Non è il cinema, ma la letteratura, e non le sceneggiature, bensì i diari. Addosso alle immagini (in libreria da venerdì col Saggiatore) tiene insieme quelli scritti da Luc dal 1991 al 2005 e dal 2005 al 2014: la parte terza arriverà e continuerà a rifuggire “un’immagine ideale del cinema” per chiedersi “che cosa ci appartiene veramente, che cosa sappiamo fare?”.
Fuori e dentro il set, dalla Palma d’Oro del 1999 Rosetta a L’enfant Palma d’Oro nel 2005, dalle questioni religiose agli attentati di Parigi e Bruxelles, non la teoria ma la pratica di vita, a metà – verrebbe da dire – tra Cristo e Nietzsche. Non sono credenti, i due fratelli, nondimeno “siamo tutti eredi, siamo tutti ebrei, cristiani e anche un po’ musulmani. In quanto europei, abbiamo ricevuto questa eredità, e anche quella dell’Illuminismo, per fortuna”. Dunque, “che cosa vuol dire amare il prossimo come se stessi? Non fare del male all’altro”.
Un comandamento laico che rimbalza tra schermo e realtà, che informa i casting e le scelte, mai solo estetiche, dei loro film e che sempre trova un approdo umanista e, perché no, socialista: “La disuguaglianza sociale è ancora molto marcata, ma il contrassegno che una volta emergeva dall’aspetto esteriore, dal modo di vestire, pettinarsi, camminare oggi è meno evidente. È quando si parla che si riconosce chi ha un linguaggio più forbito e chi lo ha molto meno o non la ha affatto, e questo rinvia all’estrazione sociale”.
Non si ferma qui Luc, nella conversazione con Stefania Ricciardi, che cura l’edizione italiana, individua il corrente e inedito “proletariato intellettuale, una nuova classe sociale che lavora in contesti in cui il cervello deve funzionare parecchio, persone che discutono, analizzano, che sono più autonome, a volte anche più individualiste” dei lavoratori manuali di cinquant’anni fa. Appunto, e la classe operaia che non va più in Paradiso dov’è finita? “L’operaio è diventato un uomo solo, il rappresentante di una specie in via d’estinzione. In questo processo, c’è un’eredità?”. Bella domanda.
La prospettiva non è solo sociologica, al monito sulla “eutanasia sociale. I senzatetto, i tossicodipendenti, tutti gli uomini e le donne fuori dal giro possono morire di freddo, fame, overdose” corrispondono notazioni sul sesso, che “non è filmato dalla nostra macchina da presa. La nostra macchina da presa è sessuale” e ha “una trance morale” nell’eterna lotta tra pulsioni e legge, e sul genere: “Una o due donne? Filmare una donna! È possibile per noi? In due? Sul set, Rosetta la chiamavamo Rosetto”.
Tutto il resto, e in realtà già questo, è Settima Arte, con una indicazione geografica tipica: “Sono entrato nel cinema con il cinema italiano. È quello che mi ha nutrito: Fellini e Rossellini. Più di Visconti”. Ladri di biciclette di Vittorio De Sica Luc l’ha amato molto, “la scena in cui il bambino vede suo padre rubare è terribile”; La ragazza con la valigia di Valerio Zurlini, con Claudia Cardinale, è “molto bello, intenso”; Blow Up di Antonioni, uscito nel 1966, “diagnosticava la sconfitta della politica e del cinema, la sconfitta del desiderio di parlare e agire insieme”; tra i più recenti, “ho visto Marx può aspettare di Marco Bellocchio e l’ho trovato magnifico”.
E poteva mancare in un diario per immagini e suoni l’autore di quello Caro, Moretti? Solo complimenti per Nanni dal più giovane dei Dardenne, estasiato dinnanzi a La stanza del figlio, ché “sentirsi di nuovo vivo tra gli altri è uno dei passaggi più difficili da filmare e lui ci è riuscito”, e a Habemus Papam, “mi ha fatto bene”, con nota di merito per il papa che sparisce, giacché “non desiderava partecipare al regno schiavizzante della potenza dell’immagine”.
La teoria (meta)cinematografica s’insinua, carsicamente va e viene, ma sul set i fratelli belgi stanno col colletto blu: “La macchina da presa è come una fiamma ossidrica”, l’imperativo morale e categorico “surriscaldare i corpi e gli oggetti”.
Non sempre quella fiamma trova il buio in sala, e succede anche con i progetti più importanti, perfino necessari. I Dardenne avrebbero voluto inquadrare la deportazione dei venticinquemila ebrei belgi nei campi, soffermandosi sul “comportamento delle autorità, la stampa, gli intellettuali, la gendarmeria, la popolazione, il film che potremmo mostrare ai nostri figli e nipoti affinché sappiano come si diffuse l’antisemitismo nel nostro paese. Dov’è questo film? Nel nulla”.