La Stampa, 27 giugno 2022
Perché sfonda il partito degli astensionisti
Sono quattro i fattori che bisogna considerare, se vogliamo capire perché ieri sono andati a votare solo quattro elettori su dieci, contro i sette che nel 2018 si presentarono ai seggi per le elezioni politiche.
Il primo, e forse il più importante, è che si trattava di ballottaggi, duelli riservati ai candidati più votati che lasciano fuori tutti gli altri. Agli elettori che non avevano votato i due sfidanti veniva dunque chiesto non di appoggiare il nome che ritenevano migliore (visto che il loro aspirante sindaco era ormai fuori gioco), ma di scegliere – dal loro punto di vista – il meno peggio. È naturale che in questi casi un certo numero di cittadini decida di restarsene a casa, sentendo di aver perso la spinta a dare il suo voto: come se la partita non lo riguardasse più.
In Francia, che è la patria del doppio turno, questo accade regolarmente. Due anni fa la sindaca di Parigi è stata rieletta – al ballottaggio – con il 48,5 per cento, ma tra il primo e il secondo turno l’astensionismo è aumentato di cinque punti raggiungendo la percentuale record del 63 per cento, quasi il doppio di quella di sei anni prima. Qualcuno allora disse che i francesi si stavano allontanando dalla politica, che il calo dei consensi di Macron aveva fatto perdere loro la passione per le sfide nei collegi: e invece alle presidenziali di aprile gli astenuti sono crollati al livello fisiologico del 26 per cento (e Macron ha vinto ancora).
Il secondo fattore è la radicalizzazione della competizione tra i partiti, che da tempo non è più quella classica, bipolare, centrodestra/ centrosinistra. La presenza ormai ricorrente di un terzo polo – come è stato il Movimento 5 Stelle alle politiche – che nelle città ha preso la forma delle liste civiche passepartout, da un lato spinge gli elettori a identificarsi con un soggetto politico ritenuto – a torto o a ragione – nuovo, ma dall’altro li induce a diffidare degli altri concorrenti, classificaticome difensori del passato, e dunque ad astenersi.
Il terzo fattore è l’incertezza del risultato. Esemplare il caso di Verona, dove l’ingresso in campo dell’outsider Damiano Tommasi e la divisione del centro-destra con la rottura tra Sboarina e Tosi hanno portato ai seggi il 55 per cento degli elettori e fatto registrare il calo minore tra primo esecondo turno. Se pensa che il suo voto sia decisivo, il cittadino fa il suo dovere. Se invece pensa che i giochi siano già fatti magari va al mare: non è un caso che i due capoluoghi di regione che hanno eletto il sindaco al primo turno – confermando le previsioni della vigilia – siano quelli dove la percentuale di votanti è risultata più bassa: il 44 per cento a Genova, il 41 a Palermo. Cifre assai diverse dal 65,9 per cento di Catanzaro, dove la partita era apertissima (e c’erano 700 candidati su 73.294 elettori, in pratica uno su cento, schierati in 23 liste a caccia dell’ultimo voto). È difficile ingabbiare questi dati nei vecchi schemi del voto clientelare, anche se è vero che al primo turno la regione con l’affluenza più alta è stata la Campania (64,6 per cento), che alle europee di tre anni fa risultò quartultima (47,6): i siciliani hanno disertato le urne più degli emiliani, i calabresi più degli umbri. Il quarto e ultimo fattore da considerare è l’identità del “partito del non voto”, che a ogni calo dei votanti viene puntualmente dichiarato vincitore morale delle elezioni (essendo passato dal 6,1 delle politiche del 1953 al 27,1 del 2018). Ma l’astensione è come il silenzio, che può essere interpretato in mille modi diversi. Nel 2004 l’Istituto Cattaneo analizzò questo elettorato silente, distinguendo tra “astensionisti protestatari” e “astensionisti apatici”. E arrivò alla conclusione che in questo mare magnum di protesta e apatia c’è una quota fluttuante di elettori di ogni colore, il cui numero è massimo «alle elezioni di scarsa rilevanza nazionale, quando le macchine dei partiti sono remote e fredde e la posta in gioco limitata». Proprio come quelle di ieri.