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 2022  giugno 27 Lunedì calendario

Le donne guadagnano sempre meno degli uomini


Gabriele e Ludovica sono sposati da 35 anni. Si sono conosciuti a Parigi mentre studiavano al master. E da allora non si sono più lasciati. D’altra parte anche la loro carriera è proseguita in parallelo. Non fosse che a un certo punto si sono accorti che, pur ricoprendo ruoli analoghi, Gabriele guadagnava 61 mila euro l’anno, Ludovica poco meno di 42 mila: il 46,7% in meno. Chiara, la loro prima figlia, è impiegata: guadagna 29.300 euro l’anno, l’11,6% in meno del fidanzato Tommaso – che ha conosciuto in ufficio.
Storie che si intrecciano e che – con il passare del tempo – non cambiano. Anzi, si radicalizzano così tanto che estirparle diventa impossibile anche ai massimi livelli: il pacchetto remunerazione medio, nel 2020, della presidente di un consiglio d’amministrazione di una quotata a Piazza Affari era 231.861 euro, il 53% di un omologo uomo (che guadagnava poco più di 501 mila euro).
È quanto emerge dall’ultimo Osservatorio JobPricing che monitorando il settore privato – ad esclusione di sanità e istruzione private – ha registrato un gender pay gap medio calcolato sulla retribuzione annuale lorda dell’11,5% a danno delle donne. Un divario che sale al 12,8% considerando la Rga, la retribuzione generale annua che considera anche eventuali premi e incentivi. «In altri termini – si legge nel rapporto – è come se le lavoratrici italiane avessero iniziato a percepire uno stipendio il 7 febbraio, pur lavorando regolarmente dal primo gennaio».
Il divario si allarga progressivamente con il crescere dell’istruzione e con l’aumentare dell’età anagrafica. Secondo l’Osservatorio, oltre alle difficoltà di accesso ai ruoli dirigenziali più remunerativi e alle scelte di lavorare meno ore degli uomini, «le donne scontano una penalità salariale legata alla maternità (quando riescono a rimanere nel mercato del lavoro) che per le lavoratrici italiane è stata stimata in -53 per cento del salario pre-maternità a quindici anni dalla maternità e in un salario settimanale inferiore del 6 per cento rispetto alle lavoratrici senza figli». Un divario penalizzante due volte, dal momento che sui padri non si osserva alcun effetto.
Da un lato il problema è salariale: una donna non laureata, specialmente se madre di bambini molto piccoli, può trovarsi nella situazione di non avere alcuna convenienza economica dal decidere di lavorare, se poi il frutto del suo lavoro viene interamente consumato per le spese legate alla cura dei bambini in sua assenza (e dal momento che in media guadagna l’11,5% in meno del padre). Dall’altro lato c’è la crescente incidenza di lavori part-time, una scelta per le donne spesso obbligata dall’onere di doversi occupare in prima persona di figli e familiari anziani. I numeri dell’Ocse mostrano come l’Italia sia al quinto posto tra i Paesi dell’organizzazione per divario sul tempo di lavoro – non retribuito – di cura: le donne italiane passano in media 5 ore al giorno ad occuparsi del lavoro di cura, mentre gli uomini non arrivano a 2,5.
Limitatamente al tema della maternità, uno studio del governo svedese ha mostrato che per ogni mese di congedo parentale preso dal padre, il futuro stipendio annuale della madre può aumentare del 7% riducendo progressivamente il gender pay gap. Con il risultato che la Svezia è uno dei Paesi con il più alto numero di donne attive nella vita lavorativa e politica.
D’altra parte la stessa Organizzazione internazionale stima che se donne negli Stati Uniti avessero la stessa partecipazione al lavoro degli uomini, il Pil americano potrebbe crescere del 9%; in Francia dell’11% e in Italia l’impatto sull’economia potrebbe arrivare addirittura al 23%. Più in generale, in media, nei Paese Ocse se partecipazione delle donne al lavoro convergere con i tassi degli uomini entro il 2030, il Pil complessivo aumenterebbe del 12 per cento.