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 2022  giugno 26 Domenica calendario

Biografia di Maurizio Lombardi raccontata da lui stesso

Si presenta con dei mocassini bianchi da “frontiera”, uno di quei capi d’abbigliamento senza sfumature: è un attimo passare da malavitoso anni Settanta a emigrante di ritorno in stile Carlo Verdone; difficilissimo restare nei millimetri di chi sa indossare e vivere a dispetto dei rischi.
Maurizio Lombardi è in quei millimetri.
Galleggia divertito in quei millimetri.
E così è uno dei pochi attori a definirsi “caratterista” senza intaccare il proprio ego (“non mi danno parti da protagonista perché sono ingombrante, lo so”); ad amare i ruoli da gay, come il cardinale in The Young Pope di Sorrentino, senza il timore di venir schiacciato dai ruoli stessi (“potrei quasi uscirei di casa con tacchi e gonna”); è uno dei pochi a mantenere il concetto di gioco legato alla recitazione, a rivendicare con i fatti la magia e la fortuna di poter essere altro e altrove, piuttosto che sempre se stessi (“desidero solo questa vita”).
Il suo primo amore
Il cinema, da sempre; (sorride) quando ero ragazzino c’era chi giocava con le bambole o con i robot: io giravo per casa convinto di essere ripreso dalla telecamera, quindi provavo le smorfie, le mosse, i passi. E poi il pomeriggio chiedevo a mamma di vedere, con lei, i classici della commedia come Pane, amore e fantasia, o i film di Totò.
Quindi…
A un certo punto mi domandai: bene, bello, ma come si fa?
Risposta?
Mi iscrissi a un laboratorio teatrale e scoprii di avere una certa attitudine alla performance live, soprattutto grazie all’altezza, al fisico, agli occhi grandi, al vocione, alla voglia di esibirmi; però ero molto cinematografico, molto american style. Eppure Ugo Chiti mi prese nella sua compagnia.
Cosa lo colpì?
L’irruenza e la posa sgrammaticata: ero ingestibile, credo talentuoso (e muove la mani come a voler plasmare, come a voler rendere tangibile la sua idea); dopo il provino Ugo emise la sentenza: “È bravo, però mi sta sulle palle”. E invece nacque l’amore.
Come mai la prima reazione?
Tempo dopo me lo spiegò: “Eri esagerato, non stavi mai zitto”.
Suscita spesso questo sentimento di fastidio?
Beh sì, e non è un mio obiettivo, ma torno a prima: sono ingombrante, mi sento sempre un elefante, e mio malgrado così risulto (si gira e guarda leggermente affranto la sua collaboratrice, come a cercare rassicurazioni).
Ora si definirà timido.
Ma lo sono!
Il teatro aiuta…
No. Gli attori introversi spesso risultano dotati di maggiore forza; ho incontrato colleghi che di persona non trasmettono nulla, scialbi, poi una volta accesa la macchina da presa cambiano completamente e acquistano un carisma straordinario.
Lei si trasforma?
Preferisco nascondermi sempre dietro qualcosa; da poco ho affrontato un provino e, per prepararmi, nei due giorni precedenti sono rimasto bloccato con la bocca “modello Joker”: davanti al regista ho bluffato fino all’ultimo, ma appena ho terminato la prova sono tornato immediatamente in me.
Alcuni suoi colleghi non riescono a entrare e uscire così da un personaggio.
La testa è stronza e lo fa: se sono impegnato in uno spettacolo teatrale comico, vivo tutto il giorno con un’energia meravigliosa, vedo tutto bello; se la pièce è malinconica e profonda, entro in una veste triste.
Lavia ama più di tutto il dopo spettacolo: la cena.
Sono stato in tournée con lui: lo imitavo benissimo.
Se la prendeva?
(Stupito) Gabriele? No! In quei giorni è stato la vittima di qualsiasi scherzo; (ride)recentemente ho incontrato sua figlia: “Ha detto papà che per sembrare lui un giorno hai indossato una parrucca bionda con i ricci e sei entrato in scena così”.
E Lavia?
Si è divertito. Ma Gabriele è ganzissimo, è un vero uomo-teatro e da lui impari tanto.
Insegna?
Suo malgrado, sì.
Suo malgrado?
Non vorrebbe risultare un maestro, ma vista la capacità e il carisma è inevitabile. E poi inframmezza i discorsi con le sue citazioni in greco e latino…
Bluffa mai?
Ohhhh, totalmente; un mio amico conosce benissimo il greco, e ogni tanto mi dava di gomito: “Guarda che non è così”; (pausa) questo lavoro è tutto un bluff…
Tommaso Ragno sostiene che è un bene aver raggiunto tardi il successo. Lei?
Macché, se fosse arrivato un film quando ero giovane l’avrei preso al volo: sarebbe partita subito una bella carriera, avrei lavorato in maniera diversa, magari ora stavo a Los Angeles.
Non si sarebbe perso?
Seeeh, io vivo solo per questo mestiere: ben venga il ruolo da protagonista, ben venga una bella storia; attraverso la recitazione noi scriviamo dei libri e alla fine mi piacerebbe lasciare due o tre romanzi belli; (ci riflette ancora) non mi sarei perso, sono troppo innamorato della mia vita, ci sto bene.
Ci sta sempre bene?
Ogni tanto vengo colpito dalla crisi dell’artista.
Depressione.
Credo sia latente in tutti; anzi, ne sto attraversando una in questi mesi. Ma grazie al tennis e allo sport ne sto uscendo alla grande.
Per Lillo la depressione vuol dire ispirazione.
Ho scritto Pugni di zolfo, storia triste, alla presenza di tre ragazze meravigliose in un periodo molto bello della mia esistenza.
Chi sono le tre?
Tre fidanzate.
Insieme?
No, nell’arco di un anno e mezzo e a ognuna di loro ho letto delle parti; (cambia tono) se sto bene posso scrivere cose tristi, se sto male divento polemico e per me un attore non può risultare mai polemico.
E ora?
Sono polemico e non mi piace.
Tre donne: ma lei ha girato vari ruoli gay e molti la credono omosessuale.
E mi piace da morire; rifiutare l’altra nostra parte credo sia un impoverimento: dentro abbiamo entrambi i lati e io sono innamorato del mio femminile.
Bene.
Non dico che mi piacerebbe uscire con gonna e tacchi, ma poco di manca.
Ri-bene.
L’abito femminile e il tacco ti rendono molto elegante, suadente ed erotico. E poi la parte femminile ti insegna a essere un vero uomo, a far emergere il giusto charme.
In quanti ruoli da omosessuale ha recitato…
(Inizia a contare con le mani) Cinque; (pausa, e ricomincia) no, sei.
Ora basta?
(Sorride sornione) E chi lo sa?
Uno dei sei è il cardinale per The Young Pope di Sorrentino. Come è andato il provino?
Con lui ne ho sostenuti due, la prima volta per La grande bellezza: ero talmente emozionato e incuriosito di incontrare Paolo da restare tutto il tempo bloccato a guardarlo, a studiare come teneva il sigaro, cullato dal suo accento napoletano, con quel tono vagamente malinconico; alla fine non ero giusto per la parte e non mi hanno preso.
Il secondo?
Convocato da Annamaria Sambucco (direttore casting) per il ruolo di cardinale: arrivo super preparato, serio, concentrato, con gli occhialini giusti scovati in un mercatino di Firenze. Della serie: questa volta me la gioco. E invece non li sento più. Dopo tre mesi mi chiama Annamaria e mi dà la bella notizia; (ci pensa) Paolo è un grande scrittore, le sue sceneggiature sono una meraviglia, sono figlie dell’epoca di Age e Scarpelli o di Flaiano. Quando la scrittura è di tale livello, devi solo portare il personaggio.
Com’è lavorare con lui?
Piacevolmente complicato, ti pone davanti a delle grandi sfide.
Tipo?
La prima volta mi sono trovato di fronte a Jude Law con due pagine e mezzo di dialogo, tutto in inglese.
E Jude Law?
Bravo, molto bravo, perfetto stile inglese, divertente, serissimo, consapevole di esserlo. E poi è bello, anzi dal vivo risulta imbarazzante: al trucco lo guardavo e pensavo: “Ma vedi questo che occhi, che meraviglia. Porca puttana”; quando uno è bello e bravo, ha vinto.
Anche lei è bello e bravo.
Bello no. Sono più un tipo.
Come andava a scuola?
Malissimo, un ciuco clamoroso, con mio padre che dopo gli incontri con i professori mi aspettava a casa e mi accoglieva arreso con le mani aperte della disperazione: “Perché ci combini questo? Perché queste figuracce?”. Ma la scuola mi interessava poco.
Come passava quelle giornate?
Studiavo un po’ di storia, prendevo in giro i professori, impegnavo il tempo a disegnare le loro caricature. Ridevo. Per fortuna a salvare la situazione con i miei genitori ci ha pensato il professore di educazione fisica: “State tranquilli, non dovete avere paura, vostro figlio se la caverà sempre”.
La sua prima volta su un set.
Una notte per decidere con Sean Penn, Kristin Scott Thomas e Anne Bancroft: poco dopo il ciak il regista (Philip Haas) mi voleva cacciare; (pausa) sul set c’era pure uno dei miei miti, Mel Brooks, che accompagnava la moglie (Anne Bancroft)…
Perché la voleva cacciare?
Sempre per la troppa irruenza.
Emozionato?
Sì, per Mel Brooks.
Gli ha chiesto l’autografo?
Nella mia vita ho ceduto solo alla firma di Adriano Panatta: è ancora sulla custodia della mia racchetta da tennis, anche se la dedica è a “Marcello”, non a Maurizio.
Torniamo al cinema: come viene trattato dai registi?
Molti, quando mi incontrano, esordiscono: “Sentiamoci, dobbiamo girare qualcosa insieme”.
E poi?
Emerge un dato: è difficile inserirmi, ho un volto non semplice e probabilmente per questo non ho ancora ottenuto un ruolo da protagonista, ma più da caratterista.
La offende venir definito “caratterista”?
(Cambia tono) No, assolutamente: anche Leopoldo Trieste lo era, ma è superlativo quando apre la porta nel Padrino , fa sparire pure De Niro.
È più metodico alla De Niro o estroso alla Depardieu?
Più De Niro, ho bisogno dei miei tempi.
Non beve come Depardieu.
Solo alle ultime repliche di una tournée teatrale, quando non ne posso più: allora vado di grappa.
Il complimento che l’ha maggiormente stupita?
Quando Gigi Proietti ha dichiarato che la parte più bella in Pinocchio è stata quella del Tonno. Il Tonno ero io. E mi sono commosso, perché quel riconoscimento è arrivato da un artista infinito, uno dei più grandi al mondo.
Un bravo Tonno.
Per quel ruolo sono rimasto in una pozza per ore e ore, poi in mare per altre ore, quindi credo di aver ingerito qualsiasi liquido prodotto dall’uomo, tanto da bere poi litri di Enterogermina; (ci pensa) sul viso avevo una maschera pesantissima.
Che faticaccia.
E quella sera il bambino non aveva neanche voglia di girare; (sorride) però ho portato sulle spalle Benigni, e ho pensato che stavo recitando insieme a uno dei miei miti.
Oltre a Panatta e Benigni, con chi altro ha vestito i panni del fan?
Con Meryl Streep: quando l’ho incontrata, davanti a tutti, le ho urlato “ti amoooo”. È stato un istinto. È la donna più bella del mondo.
È uno dei pochi ad aver lavorato con Garrone e Sorrentino. Differenze.
Paolo è un filosofo della macchina, Matteo è più d’attacco, più da fotoreporter, da giungla: hanno due grandissime personalità, due leader, Paolo tutto in levare, Matteo tutto statico e incazzato, quindi è un tennista perfetto.
Lei chi è?
(Silenzio lunghissimo) Un bambino piccino che sogna.