Avvenire, 26 giugno 2022
Thailandia, 120 anni di guerre
Nel 1902, l’allora Regno del Siam, oggi Thailandia, decise l’annessione delle aree sotto il sultanato di Pattani che vennero quindi escluse dalle vicende successive che avrebbero condotto alla nascita della Malaysia, multietnica ma in maggioranza musulmana. Escluse però anche da buona parte della storia e dello sviluppo dello Stato thai, identificandosi come malesi all’interno ma rivendicando una propria, marcata identità rispetto ai malesi d’oltreconfine. Dopo 120 anni la realtà delle province più meridionali della Thailandia, quelle di Narathiwat, Yala, Pattani, Songkhla e Satun resta di diversità e conflitto. In queste aree si concentra il 5 per cento della popolazione musulmana di un Paese di 70 milioni di abitanti in grande maggioranza buddisti, ma al di là dell’identità religiosa il Sud, islamizzato nel XIII secolo, mantiene una tradizione culturale e persino una lingua che non facilitano la partecipazione a un processo nazionale di integrazione già minato, da parte thai, dalla politica che fa anche leva sulle identità regionali e dal nazionalismo utilizzato a proprio favore da gruppi di potere politico-economico e dalle forze armate. Così, una comunità concentrata una regione che gode di estese risorse agricole e minerarie, favorita dalla situazione geografica, resta tra le più arretrate del regno. Non è un caso se qui sono storicamente attivi movimenti che rivendicano la separazione da Bangkok, ma la loro proposta, come pure la risposta evidenziano più conflittualità che dialogo. Quasi senza soluzione di continuità, ma la morte, il 25 ottobre 2004, di 78 giovani musulmani arrestati durante una manifestazione e ammassati per molte ore su camion militari sotto il sole rovente a Tak Bai ha riacceso la lotta armata fatta di agguati e attentati. Nessuno è stato mai punito per quel massacro, ma si stimano in almeno 9.000 i morti nei 6.456 giorni trascorsi da allora. Molte altre migliaia di individui ne hanno subito le conseguenze.
Oggi, come sottolineato nell’ultimo rapporto su conflitti e violenze in Asia compilato e diffuso da Asia Foundation, la percezione è di una tensione lontana dalla soluzione. Tre le ragioni principali: il senso di proprietà esclusiva della terra ancestrale; l’autodeterminazione o il desiderio di indicare in modo autonomo il proprio destino; le obbligazioni morali e i doveri religiosi. Fenomeni che localmente sono collettivamente considerati «valori sacri».
Da qui la difficoltà di trovare una soluzione a una situazione aggravata da altri fattori: la volontà di Bangkok di negare una maggiore autonomia nonostante il conflitto a bassa intensità abbia spesso costretto i thailandesi buddisti immigrati a vivere sotto protezione o andarsene; la varietà di gruppi e individui che rivendicano la rappresentanza del movimento indipendentista o come tali sono accolti dalle autorità thailandesi; l’importanza della regione, sia sul piano dei traffici transfrontalieri, sia su quello dei rapporti internazionali bilaterali; la presenza di elementi di illegalità – da bande di trafficanti di esseri umani e stupefacenti a nuclei del jihadismo internazionale – che beneficiano dell’instabilità.