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 2022  giugno 23 Giovedì calendario

Intervista al tenore Gregory Kunde

Di voci così ne sboccia una ogni morte di papa. A sessantotto anni, dopo quasi quarantacinque d’attività, quella di Gregory Kunde continua a risuonare autorevole e impetuosa sui palcoscenici internazionali. In realtà il tenore statunitense ha avuto due carriere, ugualmente fortunate, in cui è riuscito a conciliare repertori incompatibili per una stessa ugola. Prima il belcanto acrobatico di Rossini, ora il Verdi più sanguigno. Di entrambi ha cantato la parte di Otello. Un primato, poiché nei due compositori il medesimo personaggio richiede voci agli antipodi, che una sola persona non può sguainare. Kunde sì: il “moro” rossiniano in gioventù, la fibra bronzea di quello verdiano da una decina d’anni. E domani lo porta anche al Teatro Comunale di Bologna, sul podio Asher Fisch, regia Gabriele Lavia (fino al 30 giugno). Allestimento concepito nell’autunno 2020 per il PalaDozza, che la pandemia lascia debuttare soltanto adesso.
Come è riuscito nell’impresa di far ciò che la natura nega ad altri tenori?
«Misteri di una voce che nel tempo si è trasformata, diventando più potente, sonora. Attorno al 2007 ho cominciato a non stare più comodo nei funambolici volteggi rossiniani.
Pensavo di lasciare le scene per darmi all’insegnamento. Il mio agente italiano mi ha dissuaso. Aveva ragione: mi sono scoperto pilota di una Ferrari che fino ad allora avevo sempre guidato in terza, ma grazie a Verdi ha preso a sfrecciare con tuttele marce superiori».
Che Otello disegna con Lavia?
«Un personaggio vicino al modello shakespeariano: parola tornita, psicologia scavata per illuminare il rapporto con gli altri personaggi.
Tranne che con il coro, perché le norme sanitarie di quando abbiamo preparato lo spettacolo per il PalaDozza ne impedivano la presenza ravvicinata sul palco. Perciò resta dietro un tulle».
Il suo è un Otello nero?
«Per il mio debutto come Otello verdiano alla Fenice mi sentivo ridicolo da quanto avevo il viso impiastricciato di trucco scuro. Ma la sensibilità odierna non lo consente più. Noto, tuttavia, che mentre Verdi, a fine ’800, affida un paradisiaco duetto d’amore a Desdemona e allo sposo, Rossini non lascia mai soli idue, forse perché nel 1816 sembrava disdicevole far accoppiare in musica un nero a una bianca».
Negli anni 90, a Pesaro, lei è stato tra i protagonisti della stagione d’oro del Rossini Opera Festival…
«Allora Rossini occupava quasi tutta la mia agenda. Era l’epoca in cui stavano tornando in auge partiture che dall’Ottocento nessuno aveva più ascoltato. Al Rof ho imparato a scrivere variazioni di bravura per le mie arie; e ci ho preso talmente la mano che ne ho composte anche per i colleghi. In quel periodo euforico non è riuscita ad atterrarmi neppure la malattia».
Quale?
«Un tumore testicolare. In genere si manifesta entro i quarant’anni, proprio quando è venuto a me».
La sua longevità vocale dipende
da una pratica operistica sviluppata già da ragazzo?
«Mai visto un melodramma fino ai vent’anni. Nella cittadina dell’Illinois in cui sono nato, di teatro musicale neanche l’ombra. Si sarebbe dovuti andare a Chicago, distante cento chilometri; e ci andavo, sì, ma per il baseball».
E l’opera, quindi?
«Ne diffidavo. Ma una volta, mentre ero a Vienna con il mio gruppo madrigalistico universitario, un amico mi ha condotto a forza alla Staatsoper. Si dava Salom è di Strauss. Folgorante ascoltare quella roba dal vivo. Malgrado le assicurazioni dell’amico, non riuscivo a credere che si cantasse senza microfono. Il giorno dopo ho svaligiato un negozio di dischi per portarmi in America tutte le incisioni di tenori che avevano. Tempo un paio di stagioni e all’Opera di Chicago mi ci sono trasferito in pianta stabile da cantante».
Star del cartellone?
«No. Esteso periodo da comprimario. Di lì passavano tutti: Pavarotti, Domingo, Freni, Cappuccilli, il mio mentore Alfredo Kraus. A ciascuno di loro ho rubato i segreti per trovarsi bene su un palcoscenico».
Forse il vero segreto per una carriera intramontabile è la lunga gavetta?
«O forse mi ha benedetto il Cielo.
Comunque, per qualche ragione fisiologica, le voci maschili tendono a resistere all’usura del tempo meglio di quelle femminili».