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 2022  giugno 23 Giovedì calendario

Grandi dimissioni all’italiana

Fabrizio, 50 anni, diplomato, da anni responsabile acquisti in una grande multinazionale, con benefit e prospettive di crescita: lascia per avere meno stress, ritmi di lavoro più gestibili e passa ad un’azienda più piccola, a gestione famigliare. Luigi, 35 anni, tecnico in un’azienda metalmeccanica medio-piccola, molte trasferte all’estero e retribuzione soddisfacente: cambia tutto, dopo un lutto per Covid in famiglia, per stare più vicino ai suoi cari, trova un contratto stabile, ma rinuncia alla qualifica raggiunta. Francesca, 30 anni, laureata, assunta a tempo indeterminato in un’azienda che gestisce progetti formativi: molla tutto per i carichi di lavoro eccessivi, le scarse opportunità di crescita, la richiesta di reperibilità anche fuori dall’orario di lavoro. Non ha ancora un altro impiego.
Storie italiane di dimissioni. Non sarà: “Lascio tutto e cambio vita”, come accade negli Stati Uniti nel post- Covid. Ma le dimissioni in Italia continuano a crescere. Specie quelle da contratti a tempo indeterminato. Nel primo trimestre, segnala Inps, sono state 307 mila. Mai così alte negli ultimi otto anni, quando si viaggiava a ritmi di 200 mila. E forse di sempre, da quando vengono contate. Avanzano del 35% sull’anno scorso, quando in dodici mesi si è toccato il record di 1 milione e 133 mila addii senza rimpianti. E del 30% sul 2019, in epoca pre-Covid.
Molto si è scritto sul tema, tentando di declinare all’italiana il fenomeno americano noto come “The Great Resignation”. Gli economisti di casa nostra tendono però a circoscrivere il fenomeno a un boom dell’economia dopo la severa recessione del 2020, trainato da settori come le costruzioni e ora i servizi. Il moltiplicarsi di offerte allettanti – migliore remunerazione, condizioni ottimali di conciliazione con i tempi di vita, maggiore flessibilità nella gestione del lavoro da remoto, posti più vicini a casa – spingono sempre più lavoratori di ogni età e livello di carriera a cambiare.
«Il trend si è consolidato, ma è stata smentita la tesi della liberazione dal lavoro», dice Francesco Armillei, assistente di ricerca alla London School of Economics, il primo a lanciare il dibattito in Italia. «I lavoratori si dimettono, ma rimangono nel mondo del lavoro, non sempre nello stesso settore. Segnale di dinamismo e risveglio a cui l’Italia della crescita allo zero virgola non era abituata». Uno spaccato più preciso del fenomeno lo disegna Veneto Lavoro, l’ente regionale che monitora il mercato del lavoro. Ebbene anche in Veneto, nei primi cinque mesi di quest’anno, il boom di dimissioni da contratti stabili prosegue: quasi 52 mila contro le 39 mila del 2021, le 33 mila del 2020 e le 38 mila del 2019. L’incremento è di un terzo sull’anno scorso e del 35% sul pre-Covid. I due terzi dei dimessi sono uomini, come pure per due terzi si tratta di adulti. Anche se giovani, donne e senior fanno un balzo in avanti.
Ciò che colpisce dell’analisi è iltasso di ricollocazione di questi dimissionari. Quasi la metà di chi lascia il posto fisso trova una nuova occupazione entro 7 giorni e per lo più – al 70-80% – nello stesso settore o comparto, soprattutto nell’industria metalmeccanica, nel turismo, nelle costruzioni. Entro una settimana dalle dimissioni, il 46% degli uomini e il 39% delle donne ha un altro impiego. Chi lascia non cambia vita, cambia probabilmente solo lavoro.E senza grossi travasi, visto che resta per lo più nello stesso ambito.
I giovani ricollocati entro i 7 giorni sono in media (44%). Gli adulti (51%) guidano la classifica, i senior (18%) la chiudono. Chi viene da un contratto tra uno e tre anni nel 47% dei casi si ricolloca subito. Chi aveva un contratto da meno di un anno fatica di più (40%). Se però si guarda ai primi quattro mesi di quest’anno, la percentuale di ricollocazione a unmese dalle dimissioni si impenna: il 57% ha già un’altra occupazione. Per gli adulti siamo al 67%, i giovani al 60%, le donne al 52%. Altro dato che colpisce: il 30% dei dirigenti e il 27% delle professioni tecniche è disposto anche a un “downgrading”, a scendere di livello e stipendio, pur di cambiare. Nel 22% dei casi gli impiegati lasciano per un lavoro che inveceli promuove.