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 2022  giugno 20 Lunedì calendario

Usa, Cina e i rischi nella sfida su Taiwan

Nell’agenda della politica internazionale Taiwan è ormai seconda solo all’Ucraina. E all’Ucraina è in qualche modo legata: possibile vittima di aggressione da parte di una potenza ben più forte della Russia, la Cina. Intanto a portare solidarietà all’isola vanno membri del Parlamento europeo, deputati svedesi, politici australiani, funzionari lituani. In aprile, a Taipei è atterrata Nancy Pelosi: la prima visita di uno speaker della Camera dei Rappresentanti americana in 25 anni. A fine maggio, a incontrare la presidente Tsai Ing-wen, una nuova delegazione di senatori da Washington. Ma ad affollare i cieli dell’isola, c’è anche un altro genere di visitatori. Gli aerei militari di Pechino hanno intensificato come mai prima i voli nella Zona di difesa aerea di Taiwan: 465 incursioni da gennaio a maggio, il 50% in più di quelle effettuate nello stesso periodo del 2021. Caccia da combattimento, bombardieri, aerei da ricognizione che entrano nell’area sopra al mare a Sudovest dell’Isola dove le autorità di Taipei chiedono agli aerei che sorvolano di identificarsi.


Come nascono le 2 Cine
La crisi inizia nel 1949, quando i nazionalisti del Kuomintang di Chiang Kai-shek, sconfitti dai comunisti di Mao si rifugiano nell’isola che allora portava il nome di Formosa, e fondano la Repubblica di Cina. A livello internazionale il Paese è riconosciuto come unico rappresentante della Cina, con un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Nel 1971, però, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite espelle Taiwan e riconosce la Repubblica Popolare di Cina (Pechino) come «la sola legittima rappresentante della Cina alle Nazioni Unite». È l’inizio dell’isolamento internazionale di Taiwan che nel tempo si intensifica su pressione continua della Cina Popolare, con l’esclusione dell’isola da tutte le agenzie dell’Onu.


Taiwan fuori dall’Onu
Gli Stati Uniti, il 1° gennaio 1979 riconoscono la Repubblica Popolare di Cina ( e quindi l’esistenza di una sola Cina), ma al tempo stesso, con il Taiwan Relations Act, riconoscono le autorità governative di Taiwan. Un’ambiguità strategica mai risolta. Negli Anni Ottanta Taiwan inizia un processo di uscita dalla dittatura e di costruzione di una solida democrazia, tant’è che nel 2021 è unanimamente considerata fra le dieci migliori democrazie del mondo, però i Paesi che mantengono rapporti diplomatici ufficiali con Taiwan si riducono via via. Oggi a riconoscerne la sovranità sono 14: Vaticano, Guatemala, Honduras, Saint Vincent and Grenadines, Tuvalu, Haiti, Saint Kitts and Nevis, Paraguay, Eswatini (ex Swaziland), Nauru, Saint Lucia, Belize, Isole Marshall, Palau. Nella realtà ben 59 Paesi hanno stabilito con Taipei relazioni non ufficiali: Stati Uniti, l’Unione europea, il Giappone, la Russia, il Regno Unito. Taiwan è infatti uno dei centri più importanti nelle catene di produzione internazionali, e non si può fingere che non esista.


Xi vuole riprendersela
La Cina Popolare fin dal 1949 ha dichiarato di volere riportare sotto il controllo di Pechino quella che considera una provincia ribelle. Per Xi Jinping, che ha fatto cambiare la costituzione, non c’è limite al numero di mandati e quest’autunno il Congresso del partito lo riconfermerà quasi certamente per un terzo quinquennio. La questione Taiwan, che nel confronto con gli Usa è sullo sfondo da anni, ora è tutta nelle sue mani: conquistarla significherebbe dare un colpo letale alle ambizioni globali di Washington. Nelle settimane scorse Joe Biden ha confermato che in caso di attacco cinese gli Usa difenderebbero l’autonomia di Taiwan. La risposta è arrivata nei giorni scorsi dal ministro delle Difesa cinese, generale Wei Fenghe: «Se qualcuno osa puntare alla secessione di Taiwan dalla Cina, non esiteremo a combattere. E combatteremo fino alla fine. Questa è la sola scelta per la Cina». Guerra, insomma. La presidente taiwanese Tsai aveva già spiegato che Taipei non dichiarerà l’indipendenza formale, «dal momento che siamo indipendenti di fatto». E un sondaggio condotto a fine marzo ha stabilito che l’88,6% dei taiwanesi non ne vuole sapere di tornare a far parte della Repubblica Popolare. È una situazione che se sfuggisse di mano potrebbe terminare nello scontro definitivo, militare tra Stati Uniti e Cina per l’egemonia nell’Indo-Pacifico e in prospettiva nel mondo intero.


Cosa c’è in gioco?
Davvero molto. Nel Pacifico gli Usa sono la forza dominante dalla fine della Seconda guerra mondiale, e hanno garantito libertà di navigazione nell’Oceano. Una politica che ha permesso lo sviluppo di molti Paesi asiatici, dalla stessa Cina a Taiwan, Corea del Sud, Malesia, Thailandia e Vietnam. In più, Washington ha lanciato negli ultimi anni la strategia dell’«Indo-Pacifico Libero e Aperto», al fine di organizzare buona parte dei Paesi che si affacciano sui due oceani su posizioni di contrasto all’influenza di Pechino. Se la Cina prendesse Taiwan con la forza, sarebbe la fine dell’egemonia statunitense sui mari.


Il centro dei semiconduttori
Con meno di 24 milioni di abitanti, Taiwan è 20esima nella classifica delle economie stilata in base al Pil: 841 miliardi di dollari nel 2022, secondo le stime del FMI. Con un Pil pro capite a parità di potere d’acquisto pari a oltre 65 mila dollari l’anno (l’Italia è sotto ai 50 mila). L’isola è il maggior produttore mondiale di microchip, indispensabili in gran parte dell’industria, non solo quella dei computer e dei telefoni ma in qualsiasi prodotto che abbia un contenuto elettronico e digitale. La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company copre, da sola, più di metà del mercato globale dei microchip. Ciò ne fa un Paese chiave nell’economia del mondo.


Guerra o blocco dei porti?
Fino a poco tempo fa, la propaganda cinese nell’isola proponeva ai taiwanesi una soluzione stile Hong Kong: «Un paese, due sistemi». Xi ha però messo una pietra sopra ai «due sistemi» della ex colonia britannica e dunque questa soluzione per Taipei è svanita. Sul modo di prendere Taiwan, in Cina il dibattito è sempre più intenso. Per ora, dicono gli osservatori, Xi e il partito non hanno deciso a favore dell’azione militare, obiettivamente rischiosa. Un’alternativa potrebbe essere il blocco di porti e aeroporti dell’isola. Aggressione meno violenta ma che creerebbe problemi enormi per le forniture globali di microchip. Gli Stati Uniti si preparano ai diversi scenari. Nel marzo del 2021, l’ammiraglio americano che ha comandato le forze Usa nell’Indo-Pacifico fino all’anno scorso, Phil Davidson, ha detto al Comitato per i servizi armati del Senato di Washington di ritenere che un attacco cinese a Taiwan si potrebbe «manifestare nei prossimi sei anni». Ad accelerare i tempi ci ha pensato Putin invadendo l’Ucraina.


Il test è l’Ucraina
Come vanno le cose a Kiev è materia di grande studio a Pechino come a Taipei: osservare il genere di difesa che stanno utilizzando gli ucraini è una lezione per l’eventuale attaccante e per chi si deve difendere. Per la Cina la guerra è un test per capire fin dove arriva la volontà degli Usa e dei Paesi democratici di opporsi alle aggressioni e alle rivendicazioni territoriali dei regimi autoritari.