La Stampa, 20 giugno 2022
Mario Beretta, l’allenatore dei migranti
La palla rimbalza su un’erba quasi miracolosa a un passo dal Parco Forlanini, il polmone verde di Milano che accoglie chi sbarca a Linate. In un pomeriggio di giugno assolato e con un clima ormai tropicale, una ventina di ragazzi si allena in un campo di calcio: «Passa qui!», grida uno. «Sei un po’ scarso», ribatte scocciato l’altro, con un improbabile accento tra il pachistano e il milanese. Il “Mister” li osserva severo e scuote la testa. I ragazzi si impegnano al massimo in queste due ore “d’aria” prima di far rientro nei “Cas” (Centri di accoglienza straordinaria) milanesi, di via Corelli e di via Aquila, da cui sono arrivati. Non ce n’è uno che parli la stessa lingua dell’altro però si capiscono benissimo lo stesso: c’è chi chiede l’assist in arabo e a lanciare il pallone arriva un ventenne dello Sri Lanka che gli risponde con il gesto dell’ok. È il linguaggio universale del calcio, una bella sfida d’integrazione raccolta niente di meno che da Mario Beretta, ex-allenatore di Serie A e attuale dirigente Figc, che ogni settimana, il mercoledì pomeriggio, che il sole spacchi le pietre o la pioggia sferzi i prati, tiene insieme questa squadra di giovani immigrati. Lui, che ha allenato Siena, Chievo, Parma, Lecce e Torino, oltre ad essere responsabile del settore giovanile del Milan, corre avanti e indietro a dare indicazioni a tutti: per spiegare i diversi tipi di gioco può contare su due mediatori culturali, che traducono quello che dice. Questo progetto di allenamento settimanale è portato avanti dall’associazione «YouSport Social Club», per far divertire chi oggi ha meno opportunità di farlo, e per creare una squadra a 7 che possa partecipare a tornei nell’autunno del 2022. «Qui abbiamo ragazzi che vengono da tutto il mondo e che per arrivare qui hanno affrontato molti disagi – spiega Beretta – se possiamo dar loro anche solo due ore di svago mi sembra che ne valga assolutamente la pena. A volte qualcuno non riesce a venire a tutti gli allenamenti perché lavora e questo deve essere un segnale di speranza: l’integrazione passa dal calcio e arriva in società». Beretta poi è abituato a farsi capire da tutti: nella sua esperienza al Paok Salonicco erano 13 le nazioni rappresentate in campo: «Lo sport unisce sempre – aggiunge Beretta – e sapere di poter essere un ponte per il loro futuro qui in Italia è una bella sensazione». Per questi ragazzi, che vengono dalla Somalia, dal Bangladesh, dal Pakistan, dalla Nigeria, dalla Tunisia e dalla Colombia, tutti in attesa di una risposta alla domanda di protezione internazionale che hanno richiesto, la cadenza settimanale sul campo da gioco è importante: «Avere un appuntamento fisso è fondamentale per l’integrazione – spiegano gli operatori dei Cas – quando non si hanno impegni si vive fuori dallo spazio e dal tempo. Loro vivono sospesi e il motore per evitare che si diventi passivi passa anche da iniziative come questa. Avere poi vicino un professionista dello sport vuol dire interfacciarsi con qualcuno che è capace di comunicare e trasmettere una passione che loro percepiscono, perché non è assolutamente scontato che aderiscano». C’è chi ha avuto proprio il suo battesimo con il calcio grazie a questo progetto: «È la prima volta che gioco a questo sport, da noi è più famoso il cricket – racconta Abbas, 19 anni originario del Bangladesh – però mi piace molto, non mi perdo un allenamento. Mi sento anche più in salute facendo un po’ di movimento invece di stare fermo al centro». Il progetto con i “Cas” non è l’unico portato avanti dall’associazione sportiva: «Ad oggi abbiamo 7 squadre, in varie zone di Milano, tutte fondate sul nostro modello di fare inclusione: due terzi di giocatori stranieri e un terzo italiani – spiega Federico Michelini, direttore operativo di YouSport – in tutti questi progetti affianchiamo uno staff tecnico, un team di supporto, campi e materiali, e la gratuità assoluta per i partecipanti. Crediamo che la multietnicità sia un esempio di inclusione, e che lo sport possa essere un modo per superare la discriminazione». Ad allenamento finito Abbas saluta i ragazzi dell’altro centro: «Non li conoscevo tutti, ora siamo diventati amici, spero di diventare sempre più bravo, come sono già adesso alcuni di loro». —