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 2022  giugno 20 Lunedì calendario

Afroamericane, in difesa dell’aborto

A Elbi è una giovane imprenditrice di colore, sulla trentina, che vive a Savannah, in Georgia. Non è abituata a parlare di sé e tanto meno dell’aborto che ha subito di recente. In questo momento preferisce concentrarsi sul suo lavoro e sul figlio di 12 anni. “Dal punto di vista economico – racconta –, non era un buon momento. Non potevo permettermi di fare un altro figlio”. Così quando ha scoperto che aspettava due gemelli, non ci ha pensato su troppo: avrebbe abortito. Non è stato facile: “Innanzi tutto non c’era più un solo posto disponibile per fare l’intervento in città”, spiega la giovane donna, seduta al tavolino della caffetteria che ha appena aperto nel centro del quartiere storicamente nero di Cuyler-Brownville. A Savannah, cittadina nel sud-est conservatore, lontana dai grandi centri urbani come Atlanta, solo due cliniche offrono il servizio per l’interruzione di gravidanza. Per fortuna, continua, “un amico mi ha parlato di una clinica in Florida, a Jacksonville, a due ore di macchina”. Il prezzo dell’operazione è alto: circa 700 dollari (650 euro), a cui vanno aggiunte le spese di trasporto, cibo e alloggio. Ma Elbi non ha esitato un secondo.
Malgrado il budget limitato a sua disposizione, può ancora permettersi di viaggiare. Sa che non tutte hanno la stessa fortuna. Se il diritto all’aborto dovesse essere abolito negli Stati Uniti, se la Corte Suprema dovesse cioè annullare nelle prossime settimane la storica sentenza che ha riconosciuto il diritto all’aborto nel 1973, conosciuta come Roe v. Wade, le prime vittime sarebbero le donne più vulnerabili: e molto spesso, negli Stati Uniti, le più vulnerabili sono le donne di colore, come Elbi. I dati della Kaiser Family Foundation, una Ong specializzata sulle questioni di salute negli Usa, parlano chiaro: il 65% degli aborti nel 2019 in Georgia riguardano delle donne di colore, anche se queste rappresentano solo il 32% della popolazione. Lo stesso vale in altri Stati conservatori del sud. In termini di accesso all’aborto, sono loro a incontrare le maggiori difficoltà, secondo Access Reproductive Care-Southeast, un’associazione che interviene localmente per aiutare finanziariamente le donne che intendono abortire. Sulle 10.000 pazienti che hanno contattato l’associazione tra il 2017 e il 2019, le giovani donne di colore, tra i 18 e i 34 anni, rappresentano l’80%. Limitare ulteriormente il diritto all’aborto, come vorrebbero fare i giudici conservatori della Corte suprema, complicherà ancora di più la vita quotidiana di queste donne. In Georgia, nel 2019, 36.907 donne hanno fatto ricorso ad un’interruzione volontaria di gravidanza. Molti temono che, in futuro, le donne che non avranno la possibilità di spostarsi per andare a abortire in un’altra città o regione, saranno costrette a portare a termine una gravidanza indesiderata. Questo aggrava ancora di più le disuguaglianze. “La fine delle protezioni federali avrà un enorme impatto sulle donne di colore – avverte Angela D. Aina, co-fondatrice della Black Mamas Matter Alliance -. Le donne di colore già rischiano di più, sono più soggette a mortalità e comorbilità rispetto alle donne bianche. Portare avanti una gravidanza indesiderata le espone ancora di più, il che è inammissibile. Tenuto conto del razzismo storico profondamente radicato nelle nostre istituzioni sanitarie e mediche – continua Angela D. Aina – e dato l’atteggiamento coercitivo e di controllo del nostro Paese in materia di riproduzione, è urgente che i legislatori affrontino queste disparità per garantire alle donne di colore di conservare la completa libertà e il controllo sulla loro vita riproduttiva”. Nei giorni scorsi, diversi media statunitensi, come Usa Today e le tv PBS e ABC, hanno suonato il campanello d’allarme: secondo i ricercatori dell’Università del Colorado a Boulder, l’abolizione dell’aborto potrebbe far aumentare il tasso di mortalità materna.
Tra i Paesi industrializzati, gli Stati Uniti presentano già uno dei tassi più alti, con 23,8 decessi ogni 100.000 nascite nel 2020: 861 donne sono morte di parto, più del doppio di quanto è stato registrato in Francia nello stesso periodo (10,8 decessi ogni 100.000 nascite). Per le donne di colore la percentuale è più alta: in Georgia sono stati registrati 68,9 decessi ogni 100.000 nascite tra il 2013 e il 2015. “Quando le donne nere americane arrivano nelle maternità, presentano spesso rischi preesistenti, per esempio di ipertensione”, spiega Elizabeth Mosley, docente di medicina all’Università di Pittsburgh. A ciò si aggiunge lo “stress”, legato in particolare “al razzismo endemico che sussiste soprattutto negli Stati del sud, come la Georgia”. Molte donne nere hanno la sensazione di non essere ascoltate, di venire ignorate dagli staff medici. Questo vale anche per le “donne nere, istruite, che hanno un buon accesso al sistema sanitario”. Negli Stati Uniti vale quella che anche in Francia viene chiamata la “sindrome mediterranea”, una formula razzista, basata su degli stereotipi, che consiste nel pensare che le persone originarie del nord Africa, neri o altre minoranze, esagerino il loro dolore, lamentandosi in modo eccessivo. “Vi ricordate della vicenda della tennista Serena Williams? – continua Elizabeth Mosley -. È un esempio emblematico: la Williams ha abbastanza denaro per permettersi le migliori cure del Paese, eppure i suoi medici non l’hanno ascoltata quando diceva che sentiva dei forti dolori”. La campionessa pluripremiata ha rischiato di morire, poco dopo il parto, a causa di complicazioni, inclusa l’improvvisa ostruzione di un’arteria polmonare dovuta ad un coagulo di sangue. Negli Stati Uniti è diffusa anche l’idea, a volte controproducente, di “resilienza nera”: “Poiché le donne nere hanno dovuto attraversare molte esperienze traumatiche”, spiega Kyesha Lindberg, dell’associazione Healthy Mothers, Healthy Babies, che aiuta le donne in gravidanza avanzata o che hanno appena partorito, si pensa che siano in grado di sopportare qualsiasi cosa. La libertà di disporre del proprio corpo, il diritto di abortire, risvegliano le disuguaglianze più profonde radicate nella società americana. Toccano la questione razziale, la discriminazione e le regole culturali da cui anche le donne nere devono poter riuscire a liberarsi. L’aborto resta nei fatti un tabù e divide i neri americani, che sono in grande maggioranza cristiani.
In Georgia, nel 2020, la Chiesa “nera”, i cui rappresentanti aumentano (sarebbero due dozzine nella gerarchia, secondo il Washington Post), ha ammonito il reverendo democratico Raphael Warnock che, rieletto al Senato, si è dichiarato pubblicamente “pro-choice”. Il clero gli ha chiesto di tornare sui suoi “gravi errori di giudizio”. A Savannah, a metà maggio, i militanti anti-aborto, vestiti con finti camici da medico, si sono radunati davanti a una delle due cliniche che pratica ancora l’aborto. Per loro il diritto alla vita del feto conta più di tutto. Stando ai volantini che distribuiscono in astucci rosa fucsia non è la soppressione del Roe v. Wade ad essere pericolosa, ma l’interruzione della gravidanza. “Conosci i rischi emotivi associati all’aborto? Sai se la clinica potrà garantirti cure mediche adeguate in caso di complicazioni? Sai se il medico o la clinica sono coinvolte in procedure giudiziarie?”, scrivono. Le donne di Savannah, fintanto che possono, continuano ad abortire. Solo che ormai, per evitare di venire aggredite dai militanti pro-life arrivando in clinica, “aspettano in macchina il più a lungo possibile” e entrano solo all’ultimo momento, racconta un’infermiera, a sua volta obbligata a barricarsi dietro la porta d’ingresso. La caffetteria di Elbi, la giovane imprenditrice di Savannah, è a solo pochi minuti di auto dalle due cliniche in questione. Vorrebbe che le persone non pensassero più che la lotta per il diritto all’aborto sia solo “una lotta da donne bianche”. Lei stessa è decisa a prendere la parola in pubblico pur di difendere la causa e si prepara guardando attentamente i video dei discorsi delle responsabili politiche nere americane pubblicati su TikTok.
(Traduzione di Luana De Micco)