il Fatto Quotidiano, 20 giugno 2022
La manodopera che non c’è
La stagione turistica è ormai nel suo pieno e su una cosa non c’è dubbio: manca personale. Mancano 387 mila persone secondo le stime di Unioncamere e Anpal. Un’enormità. E di fronte a questo vuoto, l’associazione albergatori di Jesolo, il più importante centro balneare del Nord-Est, ha annunciato qualche giorno fa l’intenzione di adottare un rimedio radicale: andare a reclutare camerieri e lavapiatti in Polonia, ma anche in Romania e Ungheria, con eventi appositi. “Il nostro settore, come tanti altri, ha perso attrattività, ma non è un problema di salari troppo bassi”, sottolinea il presidente Alberto Maschio, “c’è un problema sociale. Il nostro bacino locale da cui attingere manodopera non basta più, e neppure i bacini storici, quindi pensiamo a soluzioni”. Non sono gli unici. La Federalberghi di Rimini e Riccione già in dicembre annunciava eventi di reclutamento personale in Albania, mentre il presidente dell’Associazione italiana imprese di intrattenimento (vita notturna) Silb-Fipe a maggio spiegava che quest’anno “per trovare personale stagionale dovrò rivolgermi alle agenzie interinali straniere”. Il ministro del Turismo Massimo Garavaglia, l’11 maggio, aveva dichiarato a Repubblica “dovremo prendere degli stranieri altrimenti avremo problemi di personale per la stagione estiva”, salvo poi correggersi qualche ora più tardi.
Nulla di innovativo,
piuttosto un’estensione al settore turistico di metodi già in essere nell’agricoltura o in alcuni settori manifatturieri, con la differenza che si tratta di professioni, in alcuni casi, a contatto col pubblico. Il Decreto Flussi 2022, rivolto a lavoratori extracomunitari, prevedeva 42 mila unità per il lavoro stagionale, in diversi settori, mentre 20 mila erano riservate agli ingressi per lavoro subordinato non stagionale nei settori dell’autotrasporto, dell’edilizia e turistico-alberghiero. Ma non bastavano, e non bastano. Tanto che già a marzo, letteralmente pochi giorni dopo lo scoppio della guerra, Fipe Confcommercio e Federalberghi in Friuli-Venezia Giulia proponevano di mettere al lavoro i profughi ucraini come stagionali nella filiera turistica, cosa che è poi effettivamente accaduta con un decreto approvato a fine aprile. Ed infine, ecco i piani di recruiting day nei paesi Ue dell’Est, da cui arrivano già turisti ed esistono già canali strutturati: il personale in questi casi non ha bisogno di visti per poter operare in Italia.
Soluzioni a un problema noto da anni, solo aggravatosi durante la pandemia. “Sì, sopperiamo con personale non qualificato”, dichiarava già nel 2019 a Italia Oggi Martin Manera, presidente del Consorzio Lignano Holiday, “facendo la formazione direttamente in struttura e arruolando lavoratori dai Paesi dell’Est”. A Rimini invece già allora gli albergatori spiegavano di voler ricorrere agli egiziani: “Hanno un’ottima preparazione perché si sono formati nei 4 e 5 stelle di Sharm e Hurghada”. Non solo soluzioni emergenziali: se i profughi ucraini hanno iniziato ad arrivare da marzo, il piano del Ministero del Lavoro (pagato con fondi UE) per la formazione pre-partenza, professionale e civico-linguistica di potenziali lavoratori extra-comunitari è del 2019, e coinvolge 15 paesi extra-UE. Ma i risultati spesso non sono quelli previsti. Come spiega con una certa frustrazione Fabio Federici del CEFAL Emilia-Romagna, che si è occupato di formare in Albania 400 persone, tra cui le aziende italiane (in Romagna, ma anche in Molise o Puglia) hanno selezionato 220 stagionali con apposito colloquio: “Il primo nulla-osta dal ministero – ci dice – è arrivato il 10 giugno, dopo tre mesi”: se i lavoratori non arriveranno in tempo, sostiene, per molte aziende coinvolte la stagione è a rischio. Anche il tentativo di sopperire con richiedenti asilo ucraini per ora ha avuto “un impatto irrilevante”, spiega Antonio Barreca di Federturismo: in assenza di un coordinamento centrale e di una necessaria formazione di base, sono pochissime le unità oggi effettivamente in servizio.
L’assenza
di coordinamento e indirizzo è un tema non solo per la formazione del personale: Enit e il Ministero del Turismo (che ha cambiato forma cinque volte negli ultimi 10 anni), entrambi carenti di personale, da decenni faticano a imprimere una politica industriale, regole certe e condivise, linee guida a un settore che vale da solo il 13% del Pil. Il problema è rendere attrattiva la filiera “per i 350 mila che oggi mancano all’appello” spiega ancora Barreca che aggiunge che oggi in alcuni casi la situazione “è quasi al livello della paralisi”: al Ministero, Federturismo aveva proposto di detassare le buste paga a favore dei lavoratori, mentre il Governo sembra invece intenzionato a rendere “cumulabile” una parte di reddito di cittadinanza con il salario da lavoratore stagionale. Un approccio che si basa sull’idea che la poca attrattività del settore turistico italiano sia dovuto soprattutto a un problema salariale.
Ma se di 514 mila
persone che lavoravano nel settore fino al 2019, 387 mila oggi mancano, le motivazioni alla base dell’abbandono appaiono più complesse, a partire dalla concentrazione di orari di lavoro e turni in pochi mesi l’anno. Problemi e prassi antiche, come i turni spezzati e gli orari fumosi che costringono il lavoratore ad essere a disposizione per larga parte della giornata o della settimana, problemi più recenti, ad esempio la riforma della Naspi, che dal 2015 viene concessa al massimo per la metà delle settimane lavorate negli ultimi quattro anni: lavorare sei mesi all’anno non basta ad avere un sussidio dignitoso. E con sullo sfondo dati e contraddizioni da non sottovalutare: tutti gli indicatori segnalano l’attrattività turistica ed enogastronomica italiana e le competenze in materia di accoglienza, eppure registriamo flussi in uscita, non in entrata. Nel rapporto 2020 dell’Ispettorato del Lavoro (l’ultimo pubblicato) si legge che su 9.408 ispezioni nelle aziende della ristorazione e nei servizi di alloggio, nel 73,4% del totale sono emerse irregolarità. Se è chiaro che sia in corso un cambio strutturale, generazionale, di approccio al lavoro, ormai da due anni periodicamente sui giornali locali i presidi degli istituti alberghieri segnalano offerte molto più rispettose che arrivano dall’estero. L’istituto alberghiero di Mondovì spiegava già nell’inverno scorso di aver avuto “un contatto con una catena alberghiera tedesca che proponeva stipendi da 1.800 euro al mese, per cinque giorni a settimana, 8 ore al giorno, scenario che in Italia è impensabile da trovare”. Maria Francesca Cellai, preside dell’istituto alberghiero Buontalenti di Firenze – che, contrariamente alla media nazionale, non registra cali di iscrizioni – nota come durante gli stage previsti dalla scuola le aziende siano più che soddisfatte del lavoro svolto: “possibile che poi, quando gli stessi ragazzi, al termine della formazione, arrivano lì come lavoratori a tutti gli effetti, non vadano più bene?”. Cellai racconta tante aziende serie, anche piccolissime, dove si fa formazione e i pagamenti sono corretti, dove i ragazzi restano volentieri. Ma di tanti, troppi casi in cui giovani che escono dalla scuola entusiasti e appassionati dopo pochi anni cambino settore o Paese: una dispersione di competenze già acquisite. Parole cui fanno eco quelle di tanti colleghi.
Se è vero che la pandemia ha solo accelerato un processo, dall’altra ha fornito non solo agli operatori del settore ma anche e soprattutto alla politica e all’amministrazione due anni per rivedere il funzionamento del mercato del lavoro e della filiera: non solo salari, ma anche orari, contratti, controlli, concessioni, incentivi. Tempo in buona parte sprecato. L’impiego di richiedenti asilo e la formazione di personale straniero può forse contribuire ad arginare un’emergenza, ma difficilmente costituirà una soluzione.