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 2022  giugno 20 Lunedì calendario

L’Urss made in Putin


Secondo i bene informati è uno dei prossimi obiettivi di Vladimir Putin: ottenere al più presto il timbro definitivo della Duma e avviare entro settembre il nuovo movimento destinato a inquadrare la gioventù russa. Il progetto è partito in maggio, in occasione della celebrazione dei 100 anni dalla fondazione dei Giovani pionieri dell’Unione Sovietica: visto l’interesse del capo supremo i tempi sono stati ridotti al minimo e l’approvazione in prima lettura è già arrivata. Manco a dirlo, sui giornali tutti i politici hanno fatto a gara per lodare l’opportunità dell’iniziativa. Qualche cosa del genere c’è già, il Partito comunista organizza per esempio sulla Piazza Rossa periodiche e folcloristiche manifestazioni del suo movimento giovanile, ma manca una struttura che abbia un sigillo ufficiale. Ora ci siamo quasi.
Dall’età di sei anni fino al termine della scuola superiore – più o meno come accadeva ai tempi di ottobristi e (...)
(...) Komsomol – i ragazzi saranno inquadrati, ufficialmente su base volontaria, in una organizzazione fondata sugli ideali di «un’educazione patriottica», dedicata a combattere i «pericoli di Internet» e le maliziose «influenze straniere» (parole dei deputati che hanno presentato la proposta).
Secondo i sondaggi i più entusiasti dell’introduzione di un movimento giovanile di Stato, sono gli anziani nati nell’ex Unione Sovietica. Molto più tiepidi gli interessati, i giovani, che con tutta probabilità farebbero volentieri a meno della «novità». Ma il loro parere conta poco o nulla. Il potere russo è saldamente in mano alla generazione venuta alla luce tra gli anni Cinquanta e i Sessanta. E per chi ha oggi tra i 60 e i 70 anni il lento distacco della Russia dal resto del mondo, conseguenza della guerra e delle sanzioni, ha anche il sapore di un nostalgico ritorno alle tradizioni autarchiche del passato sovietico, in cui, come si direbbe in Italia, «si stava meglio quando si stava peggio». Tanto più se a quel sistema e a quel periodo si devono gli inizi della propria carriera politica.
Maria Snegovaya, sociologa della George Washington University, ha appena presentato, in un articolo per la rivista The Insider, una ricerca sull’élite di potere russa: tra le 100 persone più potenti della Mosca attuale 60 hanno iniziato il loro percorso professionale o sono legate per legami familiari alla nomenklatura degli anni di Leonid Breznev. Nel passato ovviamente la cifra era ancora più alta. Alla metà degli anni Novanta gli ex iscritti al Partito comunista ancora al vertice dell’establishment erano addirittura l’80% del totale. Un numero già allora altissimo se confrontato con quello di altri Paesi usciti negli stessi anni dalla dittatura del proletariato: gli ex comunisti erano meno di un terzo in Polonia e Ungheria, il 44% in Estonia, il 47% in Lituania. Secondo la Snegovaya, la continuità al potere degli ex funzionari sovietici ha una ragione precisa: negli altri Paesi la caduta del Muro è coincisa con un forte movimento di rinnovamento dal basso e innesti significativi dalla società civile. Nulla di simile è accaduto nell’Urss, dove a spingere, più per ragioni di ambizione personale che per ragioni ideali, sono stati soprattutto i medi funzionari dello Stato comunista, già in qualche modo in carriera, ma ancora lontani dai vertici del potere (ben lontani, dice la Snegovaya, dai mandarini del Politburo).
Putin, il suo braccio destro al Consiglio di sicurezza Nikolai Patrushev, o il ministro della Difesa Sergei Shoigu, erano insomma le potenziali vittime della stagnazione brezneviana o post brezneviana che limitava le loro possibilità di avanzamento professionale e hanno trovato con la fine del comunismo inedite opportunità di carriera. Senza però essere costretti a rivedere in profondità mentalità e strumenti concettuali. «È stato il burocrate sovietico medio senza prospettive di ricchezza, avanzamento di carriera o mobilità verticale in una società chiusa, a diventare la forza trainante che ha spinto la perestroika», scrive la Snegovaya. «Ma appena il secondo o il terzo livello della burocrazia hanno scacciato dal potere il primo, sono stati loro stessi a iniziare la marcia indietro e a opporsi a riforme radicali».
Le conseguenze, dice la ricercatrice, si riflettono sulla Russia degli ultimi decenni, fino all’attuale guerra ucraina: gli uomini del potere moscovita sono intrinsecamente illiberali e anti-democratici, la loro visione del mondo è basata su un confronto senza quartiere con l’Occidente in cui «sub-stati» come l’Ucraina hanno valore solo come oggetto del supremo interesse russo.
Il conservatorismo delle élite si nota da come queste recuperano volentieri simboli cari al passato sovietico: dalle statue di Lenin di nuovo innalzate nei territori dell’Ucraina occupata, fino all’attaccamento all’inno di Stalin o alla bandiera con la falce e martello (vedi anche gli altri due pezzi in questa pagina).
Si nota anche dalla facilità e dalla soddisfazione con cui sembrano via via recidere i legami con il mondo occidentale. Nei giorni scorsi, per esempio, è stata approvata una profonda riforma del sistema dell’educazione superiore: dal curriculum degli studenti scompariranno molte caratteristiche del cosiddetto «processo» di Bologna, considerate ormai scontate per gli universitari occidentali. La novità ha suscitato grande preoccupazione tra professori e ragazzi che si trovano a dover fare i conti con un sistema che non è più omogeneo con il resto d’Europa. Allo stesso tempo il ritorno a un percorso specifico e «tradizionale» ha suscitato l’entusiasmo degli ideologi del regime. Come il già citato Nikolai Patrushev: «Rimango convinto che l’approccio sovietico all’educazione si è dimostrato storicamente il più avanzato e progressivo nel mondo, e che ogni passo avanti vada fatto tenendo questo bene in mente».
Seguendo il percorso personale dell’élite di potere la Russia di oggi sembra destinata ad assomigliare sempre più a quella di un tempo. In tempi sovietici libertà come quella d’espressione o di riunione erano ampiamente garantite dalla Costituzione scritta ma restavano subordinate all’esigenza suprema dell’edificazione del socialismo, il che portava alla loro sostanziale negazione. Lo stesso accade nell’era di Putin e in questo caso a pesare di più delle libertà individuali sono le esigenze di sicurezza o il buon nome delle Forze armate. Nelle scuole le politiche di indottrinamento, con l’adozione di testi approvati dall’autorità centrale, ricalcano quelle di cinquant’anni fa. Se poi si guarda ai mass media le analogie sono evidenti: le mensili «conferenze educative» a cui partecipavano le agenzie Tass, Novosti e i direttori dei quotidiani nazionali presso il Dipartimento propaganda del Comitato centrale del Pcus non sembrano distinguersi molto dai settimanali briefing con i grandi canali televisivi del portavoce del Cremlino Dimitri Peskov o dello stratega della comunicazione Alexei Gromov.
Dal punto di vista dell’economia, la pianificazione, dimostratasi proverbialmente inefficiente, è stata sostituita da un sistema misto a forte controllo statale: Rosneft, leader in campo energetico, è gestita di fatto dal Cremlino, Gazprom è un monopolio pubblico, sempre pubblica è Rostec, proprietaria di alcuni tra i maggiori marchi automobilistici. Sberbank, il maggiore istituto di credito, è anche quello ad azionariato largamente statale.
Il sistema funziona decisamente meglio che in epoca sovietica, ma le redini (e i benefici) sono come allora saldamente in mano a un gruppo ristretto di potere. Quanto alla popolazione «gran parte dei russi vorrebbe vivere nella vecchia Urss», ha scritto di recente Andrei Pertsev, analista del sito Meduza. «Perfino i giovani che non hanno vissuto quel periodo, sembrano avere nostalgia del passato sovietico». Pesa la mitizzazione di un ricordo, quello dei benefici sociali, almeno teoricamente garantiti a tutti: il diritto a un salario, a un appartamento pur modesto. Prima o poi, dice Pertsev, i russi si accorgeranno delle contraddizioni in cui la Russia sembra attualmente vivere. Sino ad allora il richiamo alla vecchia Unione Sovietica rimarrà un riflesso istintivo della classe dirigente e un utile strumento di propaganda.