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 2022  giugno 19 Domenica calendario

Quel secchione di Tondelli

Claudia Durastanti, scrittrice, è seduta di fianco a Carducci (la statua, naturalmente), al centro del monumento a lui dedicato, a Bologna, nel giardino di casa Carducci.
Parla di Pier Vittorio Tondelli, si tiene il mento come fa lui in una foto di molti anni fa, nello stesso posto, con la stessa luce. Lei indossa una giacca stropicciata, lui indossava un pullover da studente di filologia, gli occhiali, la riga al lato, il sorriso da Monna Lisa che aveva lui: incerto e divertito, curioso. Dice Durastanti: «La solitudine per me è un apprendistato senza insegnamento». È la biografia della sua generazione (Durastanti, classe 1984), quella che è nata quando Tondelli scriveva e però, di lui e di quegli anni, non ha in carico quasi niente. Per questo, Andrea Adriatico, regista, nel suo documentario La solitudine è questa, ha scelto lei, Jonathan Bazzi, Alcide Pierantozzi, Angela Bubba, Alessio Forgione, Paolo Di Paolo, Viola Di Grado, che hanno tutti meno di quarant’anni, per raccontare Tondelli andando a capo, liberandolo dall’identificazione, dalla via Emilia, il post punk, gli altri libertini, lo scandalo, l’Aids, l’omosessualità e capire perché Tondelli è tornato, prima delle ovvie commemorazioni, da qualche anno ormai, a bussare, e cosa ha da dire a questo tempo e cosa, a lungo, è stato trascurato di lui. Intorno a Tondelli c’era un partito, ha detto una volta Enrico Palandri, suo collega, amico, ed è vero: era un partito composto da chi, in lui, ha trovato la sintesi migliore del suo tempo, ma soprattutto che, da lui, si è sentito rappresentato perché lui ha per la prima volta nominato e reso centrale e soggetto di racconto il mondo dei respinti, dei marginali, dei diversi. E lo ha fatto rendendo chiaro il peso che ha l’identità: ha raccontato quant’è difficile derivarla dal desiderio, accettarla, incaricarsi di essere chi si è. Era un discorso universale, il suo, naturalmente, ma all’epoca sembrava potesse valere solo per quei marginali, quei respinti: adesso, invece, a sapere che siamo tante cose, molte delle quali decise da altri, e a cercare di avere un’egida autodeterminata sul proprio sé, c’è una generazione intera, forse anche due. I ragazzi fluidi non sono che questo: persone che si battono affinché all’identità sia riconosciuto lo statuto di ricerca, di sperimentazione. Tutto questo, di Tondelli, è stato detto, forse congelato. Ma ci voleva altro, ci volevano i nati dopo, quelli che non l’hanno conosciuto, a scoprire la sua dimensione autoriale. A tirarlo fuori dalla testimonianza di un mondo, di un momento. A dire di lui, come fa Claudia Durastanti, adesso e qui, davanti a chi scrive, che di Tondelli la eccita il linguaggio, la forma, lo studio: «Per me Tondelli era un lavoratore, nel senso profondo del termine. Era un esploratore e la sua attenzione alla forma non è mai stata studiata davvero, né presa sul serio: è passata come una accidente, una registrazione casuale. Invece, Tondelli ha inventato un linguaggio, e non è stato un cronista: è stato un poeta. In Weekend Postmoderno lui racconta un incontro con Fernanda Pivano che mi fa molto ridere perché anche lei era una che frequentava stradaioli, che ha tradotto la beat generation e per questo tutti si sono immaginati che avesse uno stile di vita dissoluto, e invece era una nerd, una secchiona. A me di Tondelli non eccita lo scandalo, ma lo studio, la consapevolezza estetica». A venticinque anni, appena laureato, con il suo esordio, Altri libertini, appena ritirato dal commercio per offesa della pubblica morale, Tondelli diceva di sé: la mia è scrittura, non autobiografia. «Tondelli quasi ce lo raccontano come uno scrittore inaccorto, e invece in Altri Libertini lui ha già un controllo impressionante del materiale narrativo e del linguaggio: sa che deve crearne uno per dire che il mondo che racconta, esiste. Lui era termometro delle cose che scriveva, ma restava esterno a esse: non faceva autofiction, faceva letteratura pura. Era a servizio della storia di tutti, non della sua». Chiedo a Durastanti se secondo lei c’è un motivo per cui di Tondelli si sono occupati, finora, quasi soltanto gli uomini. Risposta: «Mi viene in mente qualche studiosa accademica, come Olga Campofreda, che lo ha fatto, ma è vero che la maggioranza è maschile. Mi domando se anche in ambito queer esistono figure intorno alle quali si crea una specie di cordone protettivo. Ora assistiamo a una iper rappresentazione dell’esperienza femminile, però forse Tondelli rappresenta il corrispettivo maschile che c’è stato, a un certo punto: lui è la coda lunga di un discorso egemone e protettivo; di lui è stata tutelata la parte che serviva alla narrazione di una marginalità specifica, quella maschile omosessuale negli anni Ottanta».
Per Adriatico, che è separato da Durastanti dagli anni Settanta e Ottanta (è nato nel ’66), Tondelli è invece stato l’autore della vitalità esasperata degli anni Ottanta, quella che cercava di dimenticare il terrorismo, l’ideologia pagata con il sangue e chiedeva che al centro del progetto politico ci fosse la «ricerca di una felicità permanente». Si frantumò tutto con l’Aids, che peraltro uccise Tondelli, destinandolo a una mitizzazione che contribuì alla sovrapposizione della sua scrittura con la sua biografia – nel documentario Ciao Libertini!, di Stefano Pistolini, lo scrittore Mario Fortunato, suo grande amico, dice: «Sarebbe stato più giusto se fosse capitato a me di ammalarmi». Nei primi mesi del Covid, quando si diceva che non saremmo mai più tornati a toccarci, chi negli anni Ottanta c’era ed era adulto, ricorda che le stesse infauste previsioni erano state fatte quando era arrivato l’Hiv, e però poi tutti erano tornati a toccarsi, a fare l’amore, a baciarsi, dimenticando il contagio. Però, di quel virus e del distanziamento cui costrinse il mondo, qualcosa è rimasto. Il 1984, l’anno di nascita di Durastanti, per Adriatico è «l’arrivo dell’Aids in Italia, che ricordo con la scomparsa delle zuccheriere al bar: comparvero per la prima volta le bustine monodose, che segnarono la fine della promiscuità». Servivano un nato negli anni Sessanta e sette nati negli anni Ottanta per dire una parola nuova e diversa su Tondelli, per allargare la sua figura e mostrare che è passato il tempo giusto per fare di lui un classico, perché ha scritto una storia che si rinnova, anche se non ha a che fare con la verità, ma con l’unicità del punto di vista. Tondelli ha raccontato delle storie. Sapeva che non esiste, la verità. E qui Adriatico incontra Durastanti, che alla verità non crede come chiunque sia nato dopo il 1980: crede allo studio per lo studio. Ci voleva lei, la sua generazione debosciata ma sana, per garantire che le paure di Tondelli non hanno avuto fortuna. Tondelli credeva, infatti, con rassegnatissimo timore, di venire ricordato come uno scrittore minore. Perché era un provinciale, un giovane autore che scriveva di giovinezza, ed era facile, persino ovvio immaginare che raccontasse di sé, che le sue storie fossero vissute e non inventate, che lui registrasse anziché creare. A lungo, dopo la sua morte, è stato così: ha rappresentato sempre un’istanza, un mondo, un diario.
È stato: l’icona degli anni 80, lo scrittore gay, giovane, postmoderno. Con alterne fortune, amori a singhiozzo, sottovalutazioni, manipolazioni, appropriazioni: tutto inevitabile, e in fondo giusto. Poi, però, c’era la scrittura per la scrittura: l’ha scovata la generazione millennial, inesperta di disinteresse e forse, per questo, brava a intuirlo, quando c’è. Tondelli parla a chi adesso ha vent’anni, ma la strada gliel’hanno spianata i quaranta/trentenni, quelli che ci ostiniamo a credere che siano descritti dall’indolenza di Zerocalcare, e che invece, forse, nella loro ordinarietà, cominciano ad avere uno sguardo lungo e maturo, pulito.
Tondelli è tornato a bussare perché unisce due generazioni: una che deve farci i conti per filologia e una che deve, semplicemente, amarlo, abbracciarlo, proseguire sulla sua strada di ricerca.