la Repubblica, 19 giugno 2022
La nuova casa di Munch e i suoi fratelli
Una delle versioni dell’ Urlo di Munch, rubata nel 1994 e poi recuperata. L’arazzo di Baldishol, una colorata teoria di cavalieri di poco posteriore all’anno Mille, pezzo unico nella storia del Medioevo. Ma anche il design del Novecento e le arti applicate del tardo Rinascimento, e – tutta da scoprire – l’arte norvegese dal 1800 ad oggi: non solo Munch ma i romantici, gli espressionisti che studiarono con Matisse per poi tornare in patria, e artisti e artiste del XX e del XXI secolo che hanno guardato il mondo da una prospettiva periferica ma estremamente consapevole. Benvenuti nella grande casa del Nord, il nuovo Nasjonalmuseet di Oslo. Il più grande museo della Scandinavia ha appena inaugurato nella capitale norvegese, con un patrimonio di 400 mila oggetti, di cui circa 6500 in esposizione. Nasce dopo una lunghissima gestazione progettuale iniziata nel 2003 per unire in un’unica sede istituzioni diverse, alcune di vecchia data: la Galleria nazionale e il museo di arti decorative, nati nel XIX secolo, e i più recenti musei di architettura, design e arte contemporanea. Il nuovo edificio si trova sul mare e guarda il fiordo su cui Oslo si allunga fin dalla sua fondazione. Dall’altra parte del waterfront c’è il museo Munch, interamente dedicato al pittore simbolo della nazione, che ha aperto i battenti nei mesi scorsi. Poco distante si estende il complesso della fortezza medioevale di Akershus; accanto sorgono il Nobel Peace Centre e il municipio di Oslo. Il grande parallelepipedo del Nasjonalmuseet, progettato dal tedesco (con studio a Napoli) Klaus Schuwerk, richiama nella facciata le radici locali con un rivestimento in ardesia, come i tetti delle case rurali norvegesi, ma evoca la classicità: «Il museo è in un certo senso il tempio del nostri tempi» dice Schuwerk. Un tempio che rispetta i canoni dell’architettura museale con i primi due piani – arti applicate e collezione permanente – divisi in stanze e lascia invece aperto e flessibile l’ultimo piano, uno spazio di 2.400 metri quadri chiamato The Light Hall e destinato alle esposizioni temporanee, con una terrazza che guarda l’acqua, il verde del fiordo e le imbarcazioni, dalle enormi navi da crociera ai battelli in servizio tra le isole, attraccate ai moli antistanti. Nella caffetteria si estende una lunga parete con un’opera di Sol LeWitt, già realizzata per un altro interno a Oslo poi smantellato.
All’ingresso, nella hall, il visitatore è accolto dalla gigantesca installazione di Máret Ánne Sara, Pile o´ Sápmi Supreme : 400 teschi di renna uniti a formare, quasi citando Jasper Johns, la bandiera di una nazione che invece non esiste: quella del popolo sami a cui Máret appartiene. Un’opera politica, perché la sua prima versione fu realizzata per protestare contro l’abbattimento programmato delle renne da parte del governo norvegese. Altre opere provenienti dalla regione lappone si trovano sia nell’esposizione temporanea inaugurale della Light Hall, intitolata I Call it Art ,dedicata alla scena contemporanea e “minore” dell’intera Norvegia, sia nelle sale del secondo piano. Qui sono esposte alcune xilografie di John Savio, meraviglioso artista sami autodidatta, figlio di un esploratore artico, morto di tubercolosi a soli 36 anni nel 1938. Nel legno e nel bianco e nero della carta Savio incise le coordinate essenziali della vita delle terre estreme: il rapporto con le renne, le immense distese di neve e ghiaccio, gli accampamenti di tende, i piccoli villaggi in cui le case si stringono tra loro, quasi a proteggersi dal buio perenne dell’inverno. La Natura sovrastante, il racconto del Sublime declinato nei toni argentei dell’acqua,delle foreste, della roccia delle montagne, è uno dei fili da seguire per leggere anche la sezione dedicata all’Ottocento e al primo Novecento:nell’allestimento elegantissimo delle sale, curato dallo studio fiorentino Guicciardini & Magni, sfilano gli sposi del
Corteo nuziale nel fiordo di Hardanger (1848) di Hans Gude e Adolph Tidemand e il folklore nordico di Theodor Kittelsen, si affaccia sul fiordo la giovane de
La lanterna giapponese (1886) di Oda Krog, amica di Munch e regina della bohème, si stagliano le montagne innevate della Notte di inverno a Rondane(1914) di Harald Sohlberg. Ma non c’è solo la Natura. Gli artisti norvegesi sono appieno nel loro tempo, addirittura lo precorrono: lo dimostrano le straordinarie tappezzerie “politiche” di Hannah Ryggen, femminista e pacifista, che negli anni Trenta e Quaranta del ’900 tesse le sue Guernica raccontando l’orrore dell’ascesa del nazismo, della guerra civile spagnola, poi del secondo conflitto mondiale, e lo ribadiscono l’espressionismo astratto di Anna-Eva Bergman e Bjarne Engebret e le opere dei contemporanei, come l’artista sudanese norvegese Ahmed Umar, che lavora sui confini e sull’identitàdi genere. Percorrendo in lungo e in largo il Nasjonalmuseet ci si chiede cosa implichi costruire oggi un’impresa culturale così gigantesca (il solo edificio è costato 6 miliardi di corone danesi) intorno al concetto di “nazione”. La direttrice Karin Hindsbo ha voluto citare la credibilità dei musei come istituzioni, destinati a tramandare e trasmettere il sapere collettivo nell’era delle fake news.
Øystein Ustvedt, curatore delle sezioni d’arte moderna, ci spiega che la discussione su cosa significhi “museo nazionale” nel XXI secolo ha accompagnato la creazione di questa grande casa comune: «È una rivoluzione. Abbiamo voluto essere inclusivi, in tutti i modi possibili: negli spazi, nel modo di esporre le opere e di coinvolgere il pubblico: l’apparato didascalico è più comprensibile, abbiamo tolto di mezzo gli “ismi” per concentrarci sui temi, i testi sono semplici e scritti nel presente storico, per dare l’idea che ogni oggetto è sì parte della Storia, ma è anche qui per noi, ora». Nel grande Nord, c’è un posto che parla di futuro.