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 2022  giugno 19 Domenica calendario

Intervista a Ivan Capelli

A quattordici anni, come un piccolo Gianni Morandi, anche lui andava a 100 all’ora. Pochi anni dopo, quei 100 sono diventati 300 e più, si sono trasformati in staccate sempre oltre il limite, in paraboliche, incidenti, odore di benzina (“Quanto mi manca”), gomme bruciate, le sfide con sua maestosità Ayrton Senna, il sorpasso dei debiti, il traguardo di una vita differente da quella nata in viale Monza a Milano (“allora era periferia, lontana dalla città da bere”), la bandiera a scacchi sui sogni realizzati. Quei trecento all’ora erano il tachimetro mentale di Ivan Capelli, 59enne ex pilota automobilistico, ex enfant prodige di kart, ex ferrarista senza troppa gloria (“quella fase è stata dura da digerire”), quindi telecronista Rai e adesso protagonista di Natural Born Driver, un film-documentario proiettato in anteprima al Biografilm (e in onda, in autunno, su Sky Documentaries) nato dalla proiezione mentale di un padre speciale, complice, “che in realtà sentivo come mio fratello; (resta in silenzio) negli anni Settanta papà era un operatore cinematografico; anzi, per la Rai è stato uno dei primissimi a salire sulla moto all’incontrario, telecamera in spalla, per seguire la Milano-Sanremo (celeberrima gara di ciclismo)”.
E così…
Quando abbiamo iniziato la nostra avventura sui go-kart, ha avuto questa intuizione di registrare ogni momento, in qualche modo seguiva una sorta di sceneggiatura scritta nella sua testa.
Lungimirante.
E sei mesi fa mi sono trovato davanti alle sue bobine; (pausa) nei vari traslochi ne avevo perso traccia, non sapevo più dove stavano, e soprattutto in questi anni non avevo mai valutato il contenuto, fino a quando gli scatoloni si sono quasi materializzati davanti a me, hanno bussato alla mia spalla, come a dire: è il momento.
Si è commosso.
Non tanto nel guardarmi, ma nel ritrovare gli occhi di mio padre, la sua passione, la gioia e i luoghi di quel periodo, come la pista di San Pancrazio a Parma, oggi diventata un centro commerciale; lì sono cresciuto, ho preso in mano le prime chiavi per sistemare il mezzo.
Nelle immagini lei è più posato di suo padre.
Qui entra in gara la questione timidezza.
Un classicone.
Ma è vero, avevo un approccio imbarazzante.
Stava bene celato dal casco.
Ecco, probabilmente è così; (silenzio) comunque nasco calciatore.
Però?
Ero alto un metro e un barattolo, e già allora le società di pallone cercavano giocatori formati fisicamente.
Fino a quando?
Nel film non c’è, ma la carriera si è fermata dopo un match tra la mia Pro Sesto e l’Inter.
Che è successo?
(Cambia tono, la ferita non è chiusa) Rivedo quel momento, quando prima dell’inizio della partita guardo gli undici dell’altra squadra, li scruto, li studio e soprattutto cerco di capire quale sarà il mio diretto avversario. Io giocavo terzino destro. E a un certo punto arriva un ragazzone, il più grosso di tutti e, poco dopo, proprio quel ragazzone si gira: sulla schiena leggo il “numero 2”.
Dolore.
Era lui: quel giorno non ho toccato palla anche perché contro avevo Beppe Bergomi; (sorride) forse, e sottolineo forse perché non lo ricordo, aveva già i baffi.
Bergomi è il suo incubo.
È quello che metaforicamente ha deciso la mia vita.
Lei quanto era alto?
Un metro e 40 o poco più.
Torniamo a suo padre: sembrava già certo del suo futuro.
Un tipo spavaldo; però le regole erano chiare: dovevo andare bene a scuola.
Mamma si sentiva esclusa?
Sempre a casa con mia sorella; il primo anno ho partecipato a 24 gare più i test, quindi stavamo perennemente fuori, e papà non le ha neanche rivelato l’ipoteca sulla casa; (sorride) in realtà le ipoteche poi sono diventate due.
Andava sul set con lui?
Certo, il mio ruolo era quello di “boccia”.
Tradotto?
Il tuttofare; sono arrivato al ruolo di assistente operatore (e snocciola una serie dettagliata di termini tecnici). Se non fossi diventato un pilota avrei intrapreso quella strada.
Il pilota si vede…
Dal coraggio; uno deve conoscere i propri limiti e andare oltre, poi ogni pilota crede, anzi è convinto, che non ti possa accadere nulla.
E davanti a un incidente mortale?
Sono solo battute di arresto; quando correvo in Germania, nel campionato Gran Turismo, è morto il mio compagno di squadra e lì ti senti svuotato.
Poi ha ricominciato.
Era più forte il desiderio di riprovare certe emozioni.
Nel film c’è un Ayrton Senna giovanissimo.
Correre con lui è stato un onore; quando ho saputo della sua morte ho pianto come poche altre volte mi è capitato; (pausa) in quegli anni anche per noi piloti era il mito, l’icona alla quale tutti ambivano somigliare. E lo consideravamo immortale.
Senna da piccolo.
Ricordo quando il mio meccanico mi ha portato all’Estoril (circuito in Portogallo, ndr): “Ivan, troverai 150 piloti impegnati in gara: guarda e dimmi chi è il più forte”. Dopo pochi minuti punto il dito su un ragazzino, seduto strano, con il casco giallo: “È lui?”. “Bravo, studialo, copia tutto quello che fa: è il migliore”. Era Ayrton.
In gara lo ha superato?
Non molto spesso.
Lo descrivono schivo.
Distingueva molto bene il momento del lavoro da quello del dialogo o dell’amicizia.
Si può essere amici tra piloti?
In realtà è complicatissimo; a me è capitato con Maurício Gugelmin (pilota brasiliano, ndr): stavamo sempre insieme, pure le vacanze.
Lei era da Milano da bere?
(Ride) Macché! Io vengo da viale Monza 17, vera periferia; (ci pensa) qui c’è una differenza con l’oggi: allora ancora si poteva emergere dal nulla, bastava avere le qualità.
Quindi il suo mondo sta un po’ morendo.
Se una famiglia arriva ad acquistare una squadra di F1 e solo per permettere al figlio di correre, significa che il mio mondo è già morto (si riferisce all’imprenditore Lawrence Stroll, ndr).
Anche la tecnologia è stata un “killer”.
Io non avevo neanche il servosterzo; anche qui: Ayrton è stato il primo a capire l’importanza della preparazione fisica per arrivare alla fine della gara con ancora dei margini.
Da viale Monza a Montecarlo non le è girata la testa?
All’inizio non mi sono comprato neanche una fuoriserie: viaggiavo con un macchina diesel.
Poi?
La vita evolve.
Il punto di svolta.
L’incontro con Akira Akagi (imprenditore giapponese, ndr): per partecipare al campionato di F1 mi ha dato quattro milioni di dollari con la sola stretta di mano; (sorride) sì, nella mia vita ho visto cose…
Tipo?
Penso allo yacht di Akagi attraccato a Montecarlo: 120 metri di lusso; la salvezza è stata di non farsi troppo inebriare da situazioni del genere.
Il suo debutto in F1.
Una follia; un giorno mi chiama “Il Boscaiolo” (intende Ken Tyrrell, ndr): “Ti do una macchina”. Così sono partito e dopo quattro giorni ho debuttato senza mai aver provato l’auto e senza conoscere il circuito; oggi a un novizio lo obbligano prima a 7-8 mila chilometri su un simulatore, deve imparare a memoria ogni tracciato e poi le prove.
Da anni hanno tolto le donne con l’ombrello: è giusto?
Sbagliatissimo, hanno ridotto il glamour solo per rincorrere il politically correct.
Quanto ha rimorchiato?
(Prende tempo e prova a scherzare, poi “media”) In pista è successo raramente.
Non le crediamo.
Ci sono stati momenti divertenti, ma quando hai 220 litri di carburante nella schiena pensi ad altro.
Esiste il dopo gara.
Alla fine ero fisicamente così distrutto da non riuscire a mangiare: la forchetta in bocca ci tornava solo al mezzogiorno del lunedì.
Si è consumato.
Clavicole rotte, piede ingessato e altre amenità; a quel tempo l’abitacolo era talmente ridotto da obbligarmi a una perenne dieta e niente alcool.
Ha tutti questi acciacchi?
Oggi? Ho tre ernie alla schiena e problemi al collo.
Ha incontrato Enzo Ferrari.
Fascino totale, emanava mito; parlava come se stesse leggendo un libro, percepivi pure il punto e virgola, e non tutti avevano il privilegio di rivolgergli la parola.
C’era soggezione?
Davanti a lui ti sentivi microscopico; quando ho conosciuto Michele Alboreto ho capito che era un pilota particolare solo perché aveva avuto il privilegio di correre cinque anni per lui.
Pure lei è stato in Ferrari.
C’erano ancora alcuni meccanici che avevano conosciuto il mito del Drake.
E…
Raccontavano quanto fosse spietato: il suo unico obiettivo era vincere; i piloti li trattava da accessori.
La sua esperienza con la Ferrari non è finita benissimo: mandato via a due gare dalla conclusione del campionato.
E ci ho messo ad assorbire il colpo (nel documentario manca proprio questa parte… ndr); non ho avuto il tempo di mostrare le mie doti.
Negli ultimi anni, quanti punti della patente le hanno tolto?
Più per i parcheggi azzardati.
Non corre.
In gara sono stato protagonista di incidenti importanti, e lì avevo tutte le sicurezze possibili: so cosa si prova.
L’odore della benzina?
Lo amo, come quello delle gomme bruciate.
Si chiama Capelli. È calvo.
Meglio perdere i capelli che altro.
Il pilota più folle.
Ayrton: le sue gare sul bagnato restano nella storia. Andava il doppio di tutti gli altri.
Il più sopravvalutato.
La lista è lunghissima.
Il più donnaiolo.
Alessandro Nannini è stato il più casinista, ne combinava a ripetizione; (ride) ancora oggi non si è calmato.
Farebbe un reality?
Non sarei in grado.
Lei chi è?
Uno che ha avuto la fortuna di dedicarsi a ciò che gli piaceva. E per questo ringrazio mio padre.