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 2022  giugno 19 Domenica calendario

Intervista a Casey Affleck

Occhi chiari e innocenti, voce delicata, la predilezione per i personaggi perdenti come il padre disperato di Machester By The Sea per cui nel 2017 ha vinto l’Oscar. E una ritrosia naturale che lo porta a vivere orgogliosamente ai margini dello star system: Casey Affleck, 46 anni e due figli, è l’antidivo per eccellenza. Parente di superstar come suo fratello Ben Affleck e l’ex cognato Joaquin Phoenix (a cui ha dedicato nel 2010 l’interessante documentario Io sono qui!), Casey brilla di luce propria e gira un film dietro l’altro: dopo Oppenheimer di Christopher Nolan sul padre della bomba atomica, interpreterà Slingshot di Mikael Håfström nella parte di un astronauta in rotta verso Titano, poi sarà un contadino poverissimo in Stoner di Joe Wright. E tra un set e l’altro si presta generosamente all’incontro con il pubblico. Ultima apparizione a Sestri Levante (Genova), al Riviera Film Festival dove l’attore ha animato un’affollata masterclass intitolata Non mollare mai.
E lei ha mai avuto la tentazione di smettere?
«Tante volte, soprattutto all’inizio della carriera quando non ero nessuno, dipendevo dal giudizio degli altri ma non capivo cosa pensassero di me. Credo sia successo a tutti di provare quel disorientamento. Ma le distanze del cinema le ho prese veramente quando sono diventato padre e ho deciso di rimanere a casa due anni per stare con i miei figli».
Decise di recitare per emulare suo fratello maggiore Ben?
«No, ho fatto l’attore per la prima volta a 5 anni ad una riunione di Alcolisti Anonimi».
Cosa ci faceva in quel contesto?
«Con la mamma, accompagnavo mio padre che era dipendente dalla bottiglia e provava a disintossicarsi. C’erano altri bambini, i figli degli alcolisti: gli psicologi ci chiedevano di impersonare i nostri genitori per aiutarci a metabolizzare traumi e paure. E io facevo il papà ubriaco che dava in escandescenze, tirandoci gli oggetti. È stato quello il mio primo ruolo».
Quand’è che ha deciso di fare sul serio?
«Ho iniziato a recitare per potermi permettere il college e i primi tempi non ci mettevo troppa convinzione. Poi, strada facendo, ho imparato ad amare il mio mestiere, a viverlo visceralmente tenendo come punto di riferimento l’idolo della mia generazione: Marlon Brando».
Chi le ha insegnato ad essere un bravo attore?
«Direi che l’ho imparato da solo, prendendo come spunto i miei sentimenti più profondi. Recitare è sempre stata per me un’esperienza catartica, una specie di auto-terapia che mi ha aiutato a conoscere e rivivere le mie emozioni. Inseguo la verità e, ancora oggi, ogni volta che vengo scritturato mi sorprendo che i registi vogliano proprio me».
È stato aiutato da qualcuno nella scalata al successo?
«No, proprio no. Hollywood non è una comunità di altruisti in cui i giovani attori vengono sostenuti. Nessuno, nemmeno l’ultimo stagista, mi ha offerto una mano, un consiglio, una dritta. Ho dovuto cavarmela da solo».
L’Oscar ha molto cambiato la sua carriera?
«Non l’ha cambiata quasi per niente, continuo a scegliere i ruoli solo se mi convincono. Detesto l’idea della competizione, mi sembra stupido spendere le energie per arrivare primi. L’Oscar è un premio concepito in funzione dello show tv e, più che a noi attori, serve alla gente che fa girare i soldi nel cinema. Io preferisco concentrami sul mio lavoro, cercando sempre di migliorarmi».
Comporta una responsabilità girare Oppenheimer, un film che parla di bomba atomica, in questo momento di guerra?
«Il tema è caldo, lo so bene, ma non mi sento all’altezza di discuterne tanto più che non sono il protagonista del film (è Cillian Murphy, ndr), ho il ruolo di un ufficiale. Posso solo dire che gli armamenti nucleari rappresentano una grande minaccia per il mondo intero».
Ha interpretato tanti personaggi emarginati, soli, disperati. Si è sentito vicino a qualcuno di loro?
«A tutti. Vuol sapere la verità? Fuori dal set, ho sempre pianto per i miei personaggi. Uno in particolare mi ha spezzato il cuore: Robert Ford (per cui è l’attore stato candidato all’Oscar, ndr) che nel film di Andrew Dominik L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford non può fare a meno di ammazzare l’amico Jesse. È un uomo violento e confuso, ma io ho provato empatia nei suoi confronti immedesimandomi nei suoi tormenti».
Quindi lei è un attore che si porta il lavoro a casa?
«Non esageriamo. Mica sono Daniel Day-Lewis che si identifica totalmente nei suoi personaggi al punto di annullare sé stesso. Un attore immenso, per carità, ma io non sono estremo come lui. Il nostro lavoro è meraviglioso, privilegiato perché ci consente di vivere tante vite diverse. Ma è pur sempre un lavoro e io, quando torno a casa, devo recuperare la mia identità sennò divento pazzo».
C’è qualcosa che rimpiange?
«L’incapacità di interpretare le commedie. Non sono proprio tagliato per far ridere, ma va bene lo stesso».