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 2022  giugno 18 Sabato calendario

Teresa Blasco e il problema dei genitori del Manzoni

Fabrizio Clerici, il protagonista di Retablo, conosce Teresa Blasco in una festa
che i genitori di lei danno nella villa di Gorgonzola, nei pressi di Milano, dove
stanno trascorrendo la villeggiatura. È una splendida serata estiva del 1760. Il
giovane rimane abbagliato da questa diciassettenne che gli appare — scrive
Vincenzo Consolo — «del color vestita del nascente verde, in un impareggia-
bile splendore, nell’odore soave dell’ambra, del nardo e della rosa».1 Ma non è
il solo, purtroppo, ad ammirare lo spettacolo. Intorno a lei ronzano come
mosconi i giovani rampolli dell’alta società milanese. A Fabrizio basta un’occhiata
per riconoscere «il Beccaria, i Verri, [...] Visconti [...] Biffi [...] Lamberten-
ghi [...] Calderara, financo quel modesto abate del Parini». 2 Comunque, a
1. Vincenzo C ONSOLO, Retablo, Milano: Mondadori, 2000 [1992], p. 56.
2. Ibid., p. 56-57.


giudicare dagli sguardi furtivi di Teresa, sembra essere il Beccaria ad avere la
meglio.
Fabrizio, che si era illuso d’aver trovato il grande amore, decide di correre
ai ripari e di frapporre tra sé e quella passione incipiente il rimedio salutare
della distanza:
prima che l’insano sentimento, il febbrile morbo e divorante m’invadesse —
dichiara nel diario di viaggio che inizierà a comporre di lì a poco-, io opposi il
collaudato contravveleno della distanza. Il distacco vale a dire dalla fonte del
malessere e la salutare quarantena del viaggio, la pregrinazione in un luogo
lontano nello spazio, e nel tempo, presso la remota antichitate.3
La meta prescelta è la Sicilia, forse anche come omaggio all’antica patria
di Teresa, siciliana per parte di madre, ma che vanta pure, come ci tiene a pre-
cisare Fabrizio, che si rivolge a lei chiamandola insistentemente «Doña Teresa»
o «Doña Teresita», lontane origini spagnole. La passione è mitigata dalla lon-
tananza e Fabrizio può addirittura dedicare il suo diario alla donna da cui si è
separato, senza rancore:4
A voi, doña Teresa Blasco, che amor per le due terre pungola avite e nostalgia
d’ignote, o note se non per le parole e il ricordo de’ vostri genitori, è dedica-
to questo giornale di viaggio acciocché possa in picciol modo satisfare la sete
vostra per una delle patrie, quella materna e cara, illustrando e narrando d’es-
sa quale si rappresenta a un pellegrino spoglio ma armato d’interesse come
colui che scrive. 5
Fabrizio Clerici, personaggio di finzione,6 ha avuto la ventura di innamo-
rarsi di una donna in carne ed ossa, Teresa Blasco, destinata a convolare a giu-
ste nozze nientemeno che con l’imminente autore de Dei delitti e delle pene, il
marchese Cesare Beccaria. Ma in questo Retablo, sapientemente affrescato da
Vincenzo Consolo, la fantasia e la realtà si danno la mano e durante quella
«serata della state in quel di Gorgonzola», 7 il giovane si trova, magicamente,
a tu per tu con i protagonisti dell’Illuminismo lombardo.
3. Ibid., p. 81.
4. Su questo effetto di distanziamento, cfr.: Giuseppina B RUNETTI , «Per icone sonore: una
lettura di Retablo di Vincenzo Consolo», Anticomoderno, n. 1, 1995, p. 61-70.
5. Ibid., p. 23-24.
6. Anche se il nome del personaggio, corrisponde, com’è noto, a quello di un pittore milane-
se contemporaneo amico di Vincenzo Consolo. Giuseppe Traina ricorda che «la memoria
di uno scrittore così attento al nesso scrittura-pittura come Consolo ha certamente preso
le mosse dalle splendide variazioni sul tema della Confessione palermitana (una delle quali è
riprodotta nella copertina della prima edizione di Retablo) che Clerici dipinse negli anni
‘50, e che Sciascia definisce “un delirio del barocco riflesso da uno specchio illuministico”.
Definizione che, specularmente, se può valere per la gran parte della pittura di Clerici, vale
senz’altro per questo romanzo di Consolo» (Giuseppe Traina, Vincenzo Consolo, Firenze:
Cadmo, 2001, p. 78).
7. Ibid., p. 56.

Mentre il nostro personaggio scende verso la Sicilia, lassù a Milano, la Sto-
ria sta mettendo in scena la singolare vicenda che avrebbe fatto parlare tutta
la città ed i secoli futuri. Soltanto alla fine del viaggio, Fabrizio apprenderà da
un banchiere lombardo che Teresa era «convolata a nozze con quel giovin d’al-
to rango della potente famiglia di via Brera, d’ingegno promettente, il new-
toncino, con l’intraprendente Cesare Beccaria». 8 Per cui non gli resterà che
chiudere la sua cronaca, congedandosi da un sogno definitivamente infranto:
«Ora addio, donna bella e sagace, che foste amica mia. Addio Teresa Blasco,
addio marchesina Beccaria». 9
Con la sua brusca partenza da Milano, noi lettori veniamo esclusi, giusta-
mente, visto che non è questo l’obbiettivo del romanzo, dalla cronaca di quel-
le vicende che segnarono il destino della bella Teresa e di uno dei protagonisti
della vita culturale dell’epoca, Cesare Beccaria. Lo scopo di questo saggio è di
aprire uno spiraglio su questa zona opaca del romanzo, ossia sui fatti che Fabri-
zio si lasciava alle spalle e che si stavano svolgendo mentre lui, in compagnia del
«criato» Isidoro, andava girovagando per la Sicilia. Se vogliamo, una sorta di
lunga nota a piè di pagina, redatta in base alla documentazione che alcuni dei
protagonisti, in particolare Beccaria ed i fratelli Verri, ci hanno lasciato.
Tutto ebbe inizio, appunto, nel 1760, in una serata di fine estate, non
molto diversa da quella che ci ha descritto Vincenzo Consolo. Nella villa di
Gorgonzola, oltre a Fabrizio Clerici, c’era effettivamente il fior fiore della
nobiltà milanese. La famiglia Blasco, dalle origini nobiliari piuttosto opa-
che, organizzava quelle feste per promuovere l’ingresso in società della bella
Teresa, la cui intraprendenza faceva ben sperare. Agli sguardi che si scam-
biarono i due giovani, il padre di lei, il colonnello Domenico Blasco, dovet-
te assistere compiaciuto, visto che si trattava di uno dei rampolli dell’alta
società milanese. Cesare Beccaria, che soggiornava a Gessate, a pochi chilo-
metri da Gorgonzola, cominciò nei giorni seguenti le incursioni più o meno
clandestine per vedere la sua innamorata. I Blasco lo accoglievano natural-
mente a braccia aperte. I due giovani, avevano dalla loro anche il maestro di
cappella, Carlo Monza, 10 detto il Monzino che dava lezioni di musica ad
entrambi e che aveva quindi la possibilità di esercitare in tutta tranquillità
il ruolo di celestina.
Il 28 settembre 1760, Cesare Beccaria, secondo l’usanza dei giovani di
buona famiglia, compila la «Promessa» in cui giura «avanti Dio e sulla paro-
la di cavaglier d’onore alla signora Teresa de Blasco di sposarla in qualunque
maniera, e qualunque contrasto mi venga fatto dalla parte de’ parenti [...]».11
Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria» Quaderns d’Italià 10, 2005 97
8. Ibid., p. 145.
9. Ibid., p. 146.
10. Sul ruolo di Carlo Monza e, più in generale, sull’innamoramento fra i due giovani, cfr.:
Marta BONESCHI, Quel che il cuore sapeva.Giulia Beccaria, i Verri, i Manzoni, Milano: Mon-
dadori, 2004.
11. Cesare B ECCARIA , Carteggio (parte I: 1758-1768), a cura di Carlo Capra, Renato Pasta e
Francesca Pino Pongolini, Milano: Mediobanca, 1994, in Edizione Nazionale delle opere di
Cesare Beccaria, diretta da Luigi Firpo e Gianni Francioni, IV, p. 22-23.

98 Quaderns d’Italià 10, 2005 Giovanni Albertocchi
Il padre di Cesare, Gian Saverio Beccaria Bonesana, preoccupato per l’inten-
sità dei sentimenti del figlio che tra l’altro non si era ancora sistemato e con-
vinto che Teresa non fosse un buon partito, si oppone al matrimonio,
cautelandosi con gli strumenti legali che gli offriva la patria potestà. Cesare
e Teresa, però, come i due fidanzati che avrebbe immortalato da lì a ses-
sant’anni il loro nipote, Alessandro Manzoni, davanti all’ingiunzione che
«questo matrimonio non s’ha da fare», non demordono e ricorrono persino,
proprio come Renzo e Lucia, alle nozze clandestine che falliscono per un
ripensamento in extremis di Cesare.
Gian Saverio Beccaria, coadiuvato dal solerte fratello Nicola, decide allora
di passare alle vie di fatto: si rivolge al duca di Modena, Francesco III, facen-
te funzioni di governatore della Lombardia austriaca, chiedendo per il figlio
gli arresti domiciliari che vengono concessi alla fine di novembre «ad oggetto
che potesse con più di quiete maturare le proprie risoluzioni»12 e che si pro-
lungheranno fino al 19 febbraio 1761. Il povero Cesare è condannato a star-
sene chiuso in casa, in attesa di mettere, come si suol dire, la testa a posto. È da
supporre che in questo periodo si intensificasse l’azione dissuasoria del padre
e dello zio: per un po’ Cesare resiste, appellandosi da buon illuminista al prin-
cipio «della sua natia libertà e del suo libero arbitrio»13 ma alla fine deve capi-
tolare e, nella seconda metà di dicembre, scrive, presumibilmente sotto dettatura,
la «Relazione» in cui fa atto di contrizione, confessando d’essere stato circuito
dalle arti di Teresa e dell’ambizioso genitore, in combutta con il maestro di
musica, il diabolico Monzino. Costui, confessa il Beccaria, lo aveva attirato
una sera nella villa dei Blasco dove aveva avuto, naturalmente, «le più cortesi
e lusinghiere accoglienze». La cosa si era ripetuta più volte: il malcapitato,
sapendo di dare un dispiacere ai genitori, aveva cercato, inutilmente, di resistere.
I futuri suoceri facilitavano in ogni modo gli incontri, anche fuori di casa:
Cesare, sempre nella «Relazione», sostiene di aver avuto «tutta la libertà di
poter vedere l’oggetto della passione, mentre la figlia [Teresa] con un servito-
re veniva in una strada rimota dove si parlavamo». 14
Dopo il tentativo, andato a monte, del matrimonio clandestino che si dove-
va celebrare secondo una norma risalente al Concilio di Trento, proprio come
ne I promessi sposi, alla presenza di un sacerdote e di due testimoni anche senza
le pubblicazioni preliminari, i Blasco — continua a recriminare Cesare — gli
estorcono la famosa promessa. In questa tragicomica ricostruzione scritta sotto
la pressione del padre e dello zio, l’autore de Dei delitti e delle pene, come un san-
tarellino che cerca di dimostrare la propria innocenza, da’ la colpa al padre di
Teresa, il colonnello Domenico Blasco, delle oscure trame ai danni suoi e della
sua famiglia. Infatti quando, per l’ennesima volta, Cesare cerca di far capire al
futuro suocero che non se la sente di disobbedire ai genitori, il tenace colon-
12. Pietro GHINZONI , «Cesare Beccaria e il suo primo matrimonio», Archivio Storico Lombar-
do (Giornale della Società Storica Lombarda), XVIII, 30 settembre 1891, p. 661.
13. La testimonianza è del padre Gian Saverio Beccaria, ibid. p. 24.
14. Ibid., p. 26.

nello lo avverte che «o colle buone o colle cattive avrebbe ridotti i miei paren-
ti al segno». 15
Il 26 dicembre il cedimento di Cesare nei confronti della propria famiglia,
sembra essere totale: firma una dichiarazione in cui revoca l’assenso che, a suo
dire, gli è stato estorto in un momento di obnubilazione provocato dal «calo-
re di testa e dall’appresso che mi si faceva», 16 perché il matrimonio potesse
essere celebrato anche in sua assenza, il che, a suo avviso, dimostra ancora una
volta gli oscuri maneggi messi in atto dai Blasco.
Qualche settimana dopo, dalla casa ove Cesare scontava gli arresti domi-
ciliari parte una missiva per Teresa, sulla cui autenticità i curatori del carteggio
del Beccaria, esprimono seri dubbi. Potrebbero addirittura averla scritta anco-
ra una volta, il padre e l’inseparabile zio Nicola. Ne emerge nuovamente l’im-
magine di un bravo ragazzo che non vuole più far soffrire l’«afflitto genitore»
e propone alla fidanzata di troncare la relazione:
Diamo un esempio al mondo — proclama con enfasi lo scrivente — che due
giovani guidati dalla passione alla loro rovina si siano spontaneamente e ami-
chevolmente separati. Io voglio lasciarne a lei la gloria d’esserne la prima, e sia
certa che ben lontana dal soffrirne in menoma parte la sua convenienza, ne
sarà da tutti lodata e proposta come esempio all’altre figlie della sua qualità.17
Nella stessa lettera si indicano comunque, a scanso di equivoci, anche le
ritorsioni economiche che avrebbe provocato quell’unione senza il consenso
dei genitori. Cesare, o chi per lui, afferma che, sposarsi contro la volontà dei
genitori, non sarebbe stato un buon affare, in quanto si troverebbe «costretto
a vivere esule dalla casa paterna, lontano dal commercio de’ miei uguali, et
incapace non solo di mantenerla con quella decenza che merita il suo caratte-
re, ma anche di sostenere i pesi più necessari del matrimonio [...]».18
Il voltafaccia di Cesare provoca la reazione di Domenico Blasco che decide
pure lui di passare all’azione trasformando quell’amore contrastato in un affare
di stato: nel dicembre 1760, indirizza all’imperatrice Maria Teresa una supplica
affinché, anche in considerazione del lungo e fedele servizio prestato nell’esercito
di Sua Maestà, costei si degnasse «di ordinare a chi conviene perché venghi desi-
stito da qualunque ulteriore molestia sì contro il supplicante che contro il pove-
ro marchese sposo», al fine di poter «senza perdita di tempo effettuare li sospirati
sponsali».19 Il Blasco adduceva inoltre che «il motivo principale di tale loro pro-
cedura si è la disparità, come aducono della nobiltà della loro famiglia, con quel-
la dell’oratore, il che le riesce di sommo dolore per vedersi con ciò quasi meno
che prostituito e deriso da tutti, ed in particolare dal militare».20
Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria» Quaderns d’Italià 10, 2005 99
15. Ibid.,p. 27.
16. Ibid., p. 28.
17. Ibid., p. 32.
18. Ibid., p. 31.
19. Pietro GHINZONI , «Cesare Beccaria e il suo primo matrimonio», cit., p. 664.
20. Ibid., p. 662.

100 Quaderns d’Italià 10, 2005 Giovanni Albertocchi
Per dimostrare i veri sentimenti di Cesare, Domenico Blasco correda la
supplica di un collage di brani estratti dalle lettere d’amore scritte durante la
cattività dal marchesino alla figlia, che costei ha messo diligentemente a dispo-
sizione del genitore. La sapiente regia del Blasco, allestisce così un documen-
to in cui appare un Cesare innamoratissimo e trepidante («Anima mia», «mia
cara sposa», «cuor mio», «mio bene», ecc.) ma anche allarmato dal comporta-
mento del padre e dello zio, i quali «certamente machinano qualche gran cosa
contro di me e contro di voi». 21 In un altro «viglietto» mette addirittura in
guardia la fidanzata avvertendola di non credere a niente perché qualunque
cosa dovesse succedere «siate sicura che ciò procederà dalla forza, non già dalla
mia volontà». 22
L’intensità della passione che emana da alcune lettere scritte durante la
cattività ci conferma che il ravvedimento che Cesare Beccaria manifestava
simultaneamente nella «Relazione» non era farina del suo sacco. Ed in effetti,
il 4 febbraio, a pochi giorni dalla fine degli arresti domiciliari, comunica per
via epistolare al padre di essere tornato sulle proprie decisioni e di voler man-
tenere fede alla «promessa». Nel comunicato risuonano parole d’ordine dal
vago sapore illuminista, come quando supplica il padre di non «violentare la
mia volontà e la mia coscienza», ma anche oscuri presagi su quell’unione così
contrastata: «La supplico di lasciarmi in preda al mio destino, del quale solo a
me, non già a’ miei genitori dovrà imputarsene quell’esito cattivo che mi si
predice». 23
Il padre decide a questo punto di concedere l’assenso: lo comunica al duca
di Modena, che aveva comminato gli arresti famigliari e stabilisce le ritorsioni
nei confronti del figlio: lo cacciava di casa e gli avrebbe somministrato solo «li
puri necessari alimenti», ossia lo stretto necessario per tirare avanti. Cesare,
abituato ad essere mantenuto negli agi, avrebbe dovuto d’ora in poi cavarsela
da solo.
Il 22 febbraio 1761, Cesare e Teresa, coronano finalmente il loro sogno
d’amore. Alla cerimonia non partecipano i marchesi Beccaria i quali ordina-
no addirittura che l’intera famiglia quel giorno «vestisse a lutto grave, come se
il figlio Cesare fosse morto».24
Ma la felicità è di breve durata. Come ben scrive Piero Ghinzoni, Cesare
dovette accorgersi ben presto che «il cuore e la capanna degli innamorati non
bastavano a chi era abituato ai conforti della vita di una famiglia agiata».25 Il gio-
vane batte cassa in continuazione, ma inutilmente, per cui decide ancora una
volta di ricorrere alle vie legali. Il 2 luglio 1761 scrive al ministro plenipoten-
ziario austriaco in Milano, il conte Carlo Giuseppe di Firmian, lamentandosi
21. C. B ECCARIA , Carteggio, p. 37.
22. Ibid., p. 38.
23. Ibid., p. 41.
24. Piero CAMPOLUNGHI, Romanzo e realtà nelle vere paternità di Giulia Beccaria e di suo figlio
Alessandro Manzoni (Verri), Milano: Autore Editore, 1998, p. 24.
25. Pietro GHINZONI , cit., p. 678.

dell’ostinazione del genitore che gli nega il necessario per vivere decorosamente.
Ma ciò di cui sente più la mancanza è la dimora familiare: il ritorno a casa con
la consorte — sostiene nella lettera — sarebbe stato, anche dal punto di vista
economico, un’operazione redditizia, infatti, dopo aver fatto i suoi calcoli,
afferma che per il padre sarebbe meno dispendioso «il mantenere in propria
casa il figlio e la di lui moglie [...] anzi che dovergli soministrare fuor di casa
quei onesti e bastevoli alimenti dovuti ad un figlio». 26
Irremovibile anche alle pressioni del ministro plenipotenziario, il marche-
se Beccaria, sempre coadiuvato dal fratello Nicola, non cede di un millimetro.
La situazione si trascina per più di un anno, finché Cesare decide un’azio-
ne disperata. Lo comunica il 19 maggio 1762 al conte Firmian in una missi-
va in cui dice che, ormai «ridotto all’ultima mendicità» e per di più con la
moglie incinta di sette mesi, ha deciso di fare irruzione con lei nella casa dei
genitori, sperando di impietosirli: «Vado quest’oggi umiliato e mendico ad
implorare dalla carità di mio padre un posto per me e per mia moglie a quel-
la tavola dove ogni giorno si usa ospitalità cogli estranei; vado a cercare ricovero
in quelle stanze altre volte destinate a me ed ora vuote». 27 La lettera, con la
sua struttura melodrammatica, era però uno stratagemma per mettere le mani
avanti e dare legalità preventiva ad un audace piano d’azione architettato in
realtà dall’ amico Pietro Verri.
Prima di raccontarlo, facciamo un piccolo passo indietro per vedere come
era nata l’amicizia fra le due star dell’Illuminismo milanese.
È da supporre che quando Vincenzo Consolo li introduce nel giardino dei
Blasco in quella serata di fine estate, i due si fossero appena conosciuti. Comun-
que il loro debutto in Retablo risale a qualche pagina prima. Occorre tenere
presente, infatti, che la serata in cui Fabrizio conosce Teresa è un ricordo che
il protagonista annota sul giornale di viaggio dopo la sua partenza da Milano.
Vediamo allora il momento in cui quei «mosconi» illuministi fanno il loro
debutto nel romanzo. È quasi all’inizio, nel momento in cui Fabrizio, in pro-
cinto di sbarcare a Palermo, va sulla prora della nave, l’«Aurora», per contem-
plare il panorama. D’un tratto il suo sguardo si abbassa sulla plancia
dell’imbarcazione dove individua strani oggetti già pronti per essere portati a
terra:
Fu allora che m’accorsi, dal punto alto ove mi trovava, che sotto, confusi tra
merce d’ogni ragione, erano istromenti strani e paurosi. Istromenti giudiziali
di tortura e di condanna, gabbie di ferro ad altezza d’uomo, tine che si rive-
lano per gogne, e ruote infisse al capo delle pertiche, e letti e croci, tutti di
ferro lustro e legno fresco e unto. Il più tristo era poi lo stipo d’una gran porta
issato su un palchetto, porta di grossi travi incatramati, vuota contro la vacuità
celestiale, alta sul ciglio della prora, le grosse boccole pendenti per i cappi ch’o-
gni piccola onda o buffo faceva sinistramente cigolare.
Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria» Quaderns d’Italià 10, 2005 101
26. C. B ECCARIA , Carteggio, p. 48.
27. Ibid., p. 57.
È il macabro carico che verrà sbarcato sull’isola per «contribuire» all’am-
ministrazione della giustizia. La curiosità di Fabrizio, non è quella di un ano-
dino viaggiatore settecentesco: nell’osservare il patibolo, una specie di porta
spalancata sull’orrore, «per cui si entra dietro sentenza d’una giustizia fera e
disumana», ha un sussulto di sdegno, ed il suo pensiero corre a Milano, a quel
gruppo di giovani intravisti al ricevimento dei Blasco mentre facevano gli occhi
dolci a Teresa. Ma qui siamo ben lontani dalla frivola geografia di quella sera-
ta estiva: nel contemplare l’orrendo macchinario della giustizia, Fabrizio ammet-
te che la «vision di quegli ordegni bruti sulla plancia farebbe inorridire, al par
di me, e indignare i fratelli Verri e il giovin Beccaria, vostro divoto amico e
ammirante». Scompare la rivalità in amore, per dar luogo a una complicità
ideologica che richiama direttamente il «secolo dei Lumi».
Quei giovani erano infatti in procinto di dar vita all’ «Accademia dei pugni»,
il circolo progressista in cui si dibattevano, tra le altre cose, i problemi della
giustizia, così evidenti sul ponte dell’Aurora, e da cui prenderà avvio il pro-
getto de Dei delitti e delle pene.
L’«Accademia» nacque in effetti tra il 1761 ed il 1762 da un gruppo di ari-
stocratici che si riunivano a casa di Pietro Verri. Il nome è assunto ironica-
mente da una diceria messa in circolazione da Carlo Monza, il già citato
«Monzino» responsabile dei primi approcci fra Cesare e Teresa, secondo la
quale Pietro Verri e Cesare Beccaria si erano scambiati dei «pugni potentissimi
per decidere una quistione».
Fra i due era sorto in realtà un rapporto di amicizia e di stima. Lo confer-
ma Pietro Verri in un frammento delle Memorie, del 6 aprile 1762, in cui affer-
ma che fra «i giovani di talento» che si riunivano a casa sua eccelleva
un certo Marchese Beccaria figlio di famiglia di 25 anni di cui la fantasia e
l’immaginazione vivacissime unite a uno intenso studio sul cuore umano fanno
un uomo di merito singolare. Egli s’è maritato con una giovine figlia di un
colonnello, il Governo l’ha tenuto in arresto per più d’un mese per impedirglielo
non so poi con qual ragione, e dopo cento dicerie infine ha potuto sposarsi
ed è stato cacciato da casa con un tenuissimo assegnamento col quale non ha
pane. Ed è con questo discreditato a segno che nessuno vuol trattare con lui.28
Pietro comunque ha già individuato anche le ombre nel carattere dell’a-
mico, che è sì, «un profondo algebrista, buon poeta, testa fatta per tentare stra-
de nuove se la inerzia e l’avvilimento non lo soffocano».29 In poche parole un
uomo di genio ma con una pericolosa propensione a degradare in inetto. Le
sue titubanze nei confronti di Teresa e la dipendenza dai genitori, ci avevava-
no già lasciato intravedere qualcosa di sospetto nel suo comportamento. In
ogni caso avvertiamo sin da ora che il giudizio del Verri nei confronti dell’amico,
non sarà, anche per colpa di Teresa, sempre così benevolo.
28. Pietro VERRI, Memorie, Scelta a cura di E. Agnesi, Modena: Mucchi Editore, 2001, p. 139.
29. Ibid., p. 139-140.In quest’epoca i due si frequentavano assiduamente: «Questi – precisa
nello stesso documento Pietro – viene ogni giorno da me e studiamo nel
silenzio nella stessa camera dopo aver fatto le nostre ciarle». 30 La conversa-
zione, doveva spesso far luogo alle lamentele di Cesare sul comportamento
dei genitori, per cui è logico che l’amico, già avvezzo ad indossare i panni
del «fratello maggiore» cercasse di fargli coraggio e di consigliarlo per il
meglio. Non bisogna dimenticare che Pietro era un uomo d’azione con un,
seppur breve, passato militare in cui aveva servito come capitano nell’eser-
cito imperiale, partecipando con questo grado alla guerra dei Sette anni con-
tro i Prussiani. Il piglio militaresco nei confronti del compagno «imbranato»
si percepisce in una «Lettera agli amici» del 15 ottobre 1762, in cui descri-
ve una «impresa fatta per aiutare Beccaria la quale mi è felicemente riuscita».
L’ «impresa» è il rientro a casa degli sposini: quella che avevamo lasciato in
sospeso e che è giunto ormai il momento di raccontare, attraverso le paro-
le del Verri.
Ecco il suo minuzioso «piano di campagna». In primo luogo un attento
esame delle forze «nemiche»: dei genitori di Cesare non c’era da preoccuparsi,
non avrebbero retto allo spettacolo della nuora incinta. Maggior resistenza
avrebbe invece offerto quell’osso duro dello zio Nicola, «uomo leguleio cau-
stico e ostinato a non voler riconoscere la nuora». Pietro concepisce strategi-
camente «l’idea di una sorpresa», che ha, come vedremo le cadenze di una
sceneggiata meneghina:
Bisognava cogliere tutta la famiglia radunata. Dunque l’ora del pranzo. (…)
Bisognava pensare al personaggio che doveva rappresentare la moglie, e desti-
nai che ella come strascinatavi dal marito fingesse uno svenimento sulla prima
sedia che avesse trovata nella stanza dove era la famiglia. Disposi due lettere
nelle quali Beccaria dava parte al Ministro Plenipotenziario ed al Presidente
del Senato della risoluzione che prendeva di gettarsi ai piedi del Padre, e dispo-
si chi le dovesse contemporaneamente portare nel momento della azione affi-
ne di prevenire ogni accidente. Disposi il discorso che Beccaria doveva fare di
scusa, umiliazione e preghiera.31
Il «lieto fine» era inevitabile: «la sorpresa – racconta ancora il Verri —
fece il suo effetto, e la natura soffocò l’arte e con lacrime, abbracci e cordialità
fu accolto e collocato colla moglie nella casa paterna tratto dalla inquietudine
di vivere. Di questo fatto me ne applaudisco perché ho potuto far del bene a
un giovine di merito». 32
Il 19 maggio, a conclusione di quella giornata campale, Cesare scriveva
una seconda lettera al Ministro Plenipotenziario, il conte Carlo Giuseppe di
Firmian, per comunicargli che il piano di cui l’aveva preavvertito era andato
Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria» Quaderns d’Italià 10, 2005 103
30. Ibid., p. 140.
31. Pietro VERRI, Memorie, p. 144-145.
32. Ibid., p. 145.104 Quaderns d’Italià 10, 2005 Giovanni Albertocchi
in porto felicemente «cosicché io sono attualmente nella mia casa paterna colla
moglie e in grazia de’ miei parenti».33
Due mesi dopo, il 21 luglio 1762, Teresa dava alla luce, nei riconquistati agi
famigliari, una bambina, Giulia Beccaria, la futura madre di Alessandro Man-
zoni.
Ma non è tutto rose e fiori nella vita degli sposi: l’«inerzia» e l’«avvilimen-
to» che Pietro Verri aveva annusato nel carattere dell’amico, cominciano ad
incupire Cesare sotto forma di malesseri e di malinconie che non prometto-
no nulla di buono. Anche l’amore per Teresa sembra segnare il passo: il 15 set-
tembre dello stesso anno, comunica all’amico Giambattista Biffi che la felicità
è durata soltanto un anno e mezzo ma che è già finita. 34 L’anno successivo,
dichiara, in una lettera indirizzata ancora al Biffi che l’amore così travolgente
per Teresa si è trasformato «in una stima sincera, in una vera amicizia ed in
una tenerezza inesprimibile».35 La metamorfosi della passione in tenero soda-
lizio coniugale prosegue negli anni successivi, apparentemente con piena sod-
disfazione di Cesare, che il 26 gennaio 1766 in una lettera ad André Morellet,
il filosofo che tradusse in francese Dei delitti e delle pene, dichiara che gli «è toc-
cata la rara felicità di far succedere all’amore la più tenera amicizia».36
Viene comunque il sospetto che si tratti in realtà di un artificio per masche-
rare la profonda gelosia che aveva iniziato a nutrire nei confronti della con-
sorte. «Che la Teresa – avverte lo studioso Carlo Antonio Vianello – fosse una
leggiadra fraschetta è ormai risaputo», 37 per cui i motivi per essere geloso
c’erano e come!
La gelosia, insieme a qualche altro disturbo di origine nevrotica, fu sicu-
ramente alla base dell’affrettato rientro, nell’autunno 1766, da Parigi, dove era
stato invitato dai più autorevoli intellettuali illuministi. Il suo gesto lascerà di
stucco Voltaire, Diderot, d’Alembert, ecc., che si aspettavano ben altro dal-
l’autore del libro che furoreggiava in tutta Europa. 38 Ma Cesare aveva le sue
buone ragioni: mentre dava conferenze nei circoli più esclusivi della città, la
moglie se la spassava sul lago di Como con il marchese Bartolomeo Calderara39
33. Carteggio, IV, p. 58.
34. Carteggio, p. 67.
35. Ibid., p. 77.
36. Ibid., p. 222.
37. Carlo Antonio VIANELLO, Pagine di vita settecentesca, Milano: Baldini e Castoldi, 1935, p. 83.
38. Melchior Grimm così commentava sulla rivista Correspondance littéraire l’improvviso rientro
a Milano di Cesare Beccaria: «Nous n’avons pu le garder qu’un mois, au bout duquel il a repris
la route de Milan. On dit qu’il a épousé une jeune femme contre le gré de ses parents, et qu’il
en est excessivement amoureux et jaloux. (…) On dit aussi que sa douce moitié est fort jolie,
et qu’elle n’est pas inexorable pour ceux qui soupirent autour d’elle. Pauvres philosophes, voilà
ce que c’est que de nous !» (Correspondance littéraire, VII, 1766, p. 174-175).
39. Costui era divenuto l’amante ufficiale di Teresa. Viene descritto come un giovane «bello,
ricchissimo e spensierato gaudente (…) avviato, come fece, a sprecare nei piaceri, un’intel-
ligenza ancora vivace» (Carlo Antonio VIANELLO, La vita e l’opera di Cesare Beccaria, Mila-
no: Ceschina, 1938, p. 80) ed anche come «un cavaliere nato per portare il turbante ed
avere un serraglio a sua disposizione» (Alessandro GIULINI, A Milano nel Settecento, Milano:
Famiglia Meneghina Editrice, 1926, p. 155).e per di più non aveva nessuna remora nel farglielo sapere: «Caro Chesino [sta
per marchesino] – gli scrive il 13 ottobre 1766-, io domani vado per due o tre
giorni alla Costa di Calderara essendo l’unico mezzo per distrarmi un poco di
una forte malinconia». 40 In una lettera precedente lo informava addirittura
della cattiva salute dell’amante che le dava molte preoccupazioni:
Caro Chesino, questa sera non posso essere più afflitta di quello che lo sono,
una delle [cose] che mi affliggono si è che Calderara non sta troppo bene, la sua
solita flussione di denti e male di testa anco più forti che il solito lo tormentano
e mi dicono che spasima ed io rimango sola nella mia camera con i miei soli-
ti pensieri lugubri che mi straziano il cuore (…). 41
Su quella serata di fine estate da cui aveva preso avvio la vicenda, cominciano
ad addensarsi nubi minacciose. Si potrebbe addirittura ipotizzare che deci-
dendo di partire per la Sicilia, Fabrizio Clerici, prendeva, senza volerlo, una
decisione che gli avrebbe risparmiato molte preoccupazioni.
Ma riprendiamo la storia dell’ «incomparable marquise Beccaria», come la
chiamava sarcasticamente Pietro Verri, la quale, dopo le nozze, può realizzare
le sue ambizioni ed entrare nell’alta società milanese.
Vi è un’altra «serata» nella sua vita, la cui importanza è paragonabile a quel-
la dell’estate del 1760; stavolta però il cronista non è Vincenzo Consolo, ma uno
dei testimoni diretti, Pietro Verri in uno scritto assai divertente, destinato agli
amici: la Relazione d’una prodigiosa cometa osservata in Milano – 1763. La
cometa di cui si parla è il copricapo con cui Teresa si presenta ad un ricevi-
mento, lasciando tutti esterrefatti.
È il 28 gennaio 1763, afferma lo scrittore con una precisione destinata ad
avvenimenti di miglior causa. Cinquanta matrone dell’alta società ed una set-
tantina di cavalieri, tessono i frivoli preliminari di una serata che stenta a decol-
lare fra imbarazzi, reticenze e svolazzi di ventaglio. Quando, all’improvviso,
l’apparir di una giovine donna lascia tutti con il fiato sospeso. Più che la bel-
lezza e l’eleganza, ad attirare la loro attenzione è una «sorta di cuffia chiamata
Cometa ch’ella s’era posta in capo», diversa dalle altre comete in commercio.
«Cotesta – precisa il Verri – era di fine piume candide di non so qual vola-
tile tessuta».42
Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria» Quaderns d’Italià 10, 2005 105
40. Carlo Antonio V IANELLO, Pagine..., cit., p. 92. Alessandro Verri che accompagnò il Bec-
caria a Parigi, scrive allarmato ai fratelli che l’amico ha ormai deciso il rientro a Milano,
«E per chi – si chiede – Per la moglie che va divertendosi alla costa, a Turano, in buona
compagnia, e che il giorno stesso della sua partenza si divertì allegrissimamente?» (Lettera
di Alessandro Verri ai fratelli, 7 novembre 1766 in Viaggio a Parigi e Londra, cit., p. 31.
41. Lettera di Teresa a Cesare Beccaria, 6 ottobre 1766 in Carlo Antonio VIANELLO, Pagine...,
cit., p. 90.
42. P. VERRI, «Relazione d’una prodigiosa cometa osservata in Milano – 1763», in «Cose varie
buone, mediocri, cattive del Conte Pietro Verri fatte ne’ tempi di sua gioventù, le quali con
eroica clemenza ha trascritte di sua mano nell’anno 1763 ad uso soltanto proprio o degl’in-
timi amici suoi», oggi in Mario S CHETTINI (a cura di) Milano in Europa, Cino del Duca
Editore: Milano, 1974, p. 75.106 Quaderns d’Italià 10, 2005 Giovanni Albertocchi
L’avvenimento è tale che lo scrittore si affretta furbescamente a registrarlo
per tramandarlo alla posterità con una esattezza che farebbe impallidire quel-
la con cui Pietro Bayle descrisse – sostiene ancora il Verri – la cometa appar-
sa il secolo scorso:
Erano le due ore della notte ossia sett’ore e mezzo dopo mezzodì, il barometro
a ventisette pollici e due linee d’altezza, il Termometro di Reamur a sei gradi
sopra il gelo, il Cielo nuvoloso, e l’aria tranquilla dopo un leggiero Libeccio
che aveva soffiato durante il giorno.
Questa cometa dunque comparve fatta esattamente sulle dimensioni cogni-
te, cioè ha di lunghezza, circa tre pollici e mezzo, larga due pollici precisa-
mente, ed alta un pollice ed una linea. Il colore, come si è detto, candido assai,
il peso di due dramme, e dodici grani crescenti, e la materia ond’è composta
sono sottilissimi cilindri d’acciaio circondati spiralmente da fili di lino fra i
quali restano imprigionate alla estremità diverse piccole piume disposte in
simetria che ricoprono e l’acciaio e il filo.43
Al silenzio succede lo scombussolamento generale. Vi è chi critica ad alta
voce, chi nasconde il proprio stupore dietro il ventaglio, chi esprime la pro-
pria ammirazione, mentre Teresa, la «giovane Dama Cometifera» se la spassa,
contenta di essere al centro dell’attenzione. Per almeno tre ore non fa che cor-
rere con quelle piume penzolanti, da una parte all’altra del salone per dare ogni
sorta di informazioni sul copricapo misterioso:
(…) confezionato in Parigi da una certa Janetton celebre facitrice di cuffie, la
quale al prezzo d’un Luigi la vendette a un Gesuita chiamato La Grange il
giorno 8 dello scorso settembre; che questo Gesuita venuto in Italia la portò a
Milano dove colla mediazione del Padre Melzi la vendette per due Luigi a
Madama Floran la quale poi a otto zecchini l’ha venduta il giorno 27 dello
scorso Dicembre alla Dama che l’ha portata alla Regia Ducal Corte. 44
Gli Astrologi, si dice a conclusione, prevedono che fra un anno tutte le
matrone di Milano indosseranno questa cometa.
L’avvenimento colpì a tal punto la fantasia dello scrittore che lo assunse a
metafora della fatua aristocrazia urbana e forse anche come presagio dell’in-
certo futuro coniugale dell’amico Beccaria. L’episodio viene rammentato una
seconda volta sotto la categoria delle «coglionerie» (è così che il Verri le designa)
che hanno afflitto la vita milanese del 1763 in un curioso pamphlet, la Cro-
naca di Cola de li Picirilli degli avvenimenti pubblici di Milano dell’anno 1763.
In un napoletano poco probabile, Cola de li Picirilli, alter ego del Verri, descri-
ve le «coglionerie che aggio veduto capetare in chissa nobule Metropole entro
lo brieve spazio d’un anno». 45 Tra le più significative troviamo quella messa
43. Ibid., p. 75.
44. Ibid., p. 76-77.
45. P. V ERRI, «Cronaca di Cola de li Picirilli degli avvenimenti pubblici di Milano dell’anno
1763», in Milano in Europa, cit., p. 49.in circolazione dal Monzino sull’ «Accademia dei Pugni», dove «se diceva che
cierti studiosi pe’ nome Beccaria, Longo, Lambertenghi, Blasco [Michele, fra-
tello di Teresa], Visconti, et due frati Verri, Alessandro et Pietro se adunasse-
ro pe’ darse de’ pugni».46 Altra coglioneria, questa però condivisa, come vedremo
più avanti, almeno dai Verri, che nella suddetta Accademia si pensava «ch’era
na buona cosa che le moliere facisser becche le mariti». 47
Cola, naturalmente, non può lasciarsi sfuggire, trattandosi del 1763, la
famosa apparizione della cometa:
Alle ventotto de lo mese de Jennaro essenno recevimiento a Corte, ve fue na cier-
ta Signora pe’ nome Teresa, figlia de lo Teniente Colonnello Blasco e moglie-
ra de lo Si Marchese Cesare Beccaria uomo de molta vertù ne lo cuore e de
molta acutezza de cerviello mo chissa Signora vinne co na cuffia fatta no già de
lino, ma de penne de uciello, et chilla cuffia facia na bella comparza perch’e-
ra sovra no viso jovene e che avia na grazia et vetustà singolare.48
Vedremo più avanti le ragioni dell’accanimento nei confronti di Teresa.
Per completare comunque le sue apparizioni mondane, che il Verri, come si è
visto, non si lasciava sfuggire, citiamo anche il suo défilé in Toscana con una pet-
tinatura mai vista da quelle parti:
La marchesina Beccaria ha fatto gran figura ad un ballo (…), tutta la città e
borghi erano sossopra; un certo riccio, nuova moda per la Toscana, un riccio, che
scende in mezzo alla fronte, ha una fortissima impressione in questi animi robu-
sti toscani, se ne parla con ammirazione, come pure della bellezza di Caldera-
ra, poverino il quale non sa dove possano finire questi elogi in Toscana; insomma
se la godono divinamente e il marito si lascia vedere poco frattanto.49
In questo frammento epistolare risalente al 1768, ci preme indicare la pre-
senza, accanto a Teresa, di un giovine di bell’aspetto, il già citato marchese
Bartolomeo Calderara che evidentemente continua ad agire indisturbato anche
dopo il ritorno del Beccaria da Parigi, avvenuto due anni prima. Mentre il
marito, sottolinea con sarcasmo il Verri, lascia fare, al punto – ci informano
altre fonti – da divenirne amico, accettarne i regali, libri rari soprattutto, ed
instaurare così un sereno ménage a trois. 50
Il Calderara, se si ricorderà bene, è pure segnalato da Vincenzo Consolo
tra i giovani che attorniavano Teresa in quella serata di fine estate.
Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria» Quaderns d’Italià 10, 2005 107
46. Ibid., p. 58.
47. Ibid., p. 58.
48. Ibid., p. 51.
49. Lettera di Pietro Verri al fratello Alessandro del 6 agosto 1768 in Emanuele GREPPI e Ales-
sandro GIULINI (a cura di) Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri dal 1766 al 1768, Mila-
no: Cogliati, 1923, p. 377.
50. Secondo Carlo Capra, il Calderara sarebbe pure padre di un figlio, Giovanni Annibale, par-
torito da Teresa il 28 agosto 1767 e concepito durante il soggiorno del marito a Parigi (Carlo
CAPRA, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna: il Mulino, 2002, p. 269).108 Quaderns d’Italià 10, 2005 Giovanni Albertocchi
La nostra eroina, comunque, non era solo la protagonista delle cronache
mondane: le sue ambizioni andavano più in là, e come consorte di un intel-
lettuale non poteva di certo lasciarsi sfuggire le riunioni dell’ «Accademia dei
Pugni» di cui facevano parte i più bei nomi dell’aristocrazia lombarda. Oltre ai
fratelli Verri, Alessandro e Pietro ed al marito, Cesare Beccaria, vi partecipa-
vano Giambattista Biffi, Tiberio Crivelli, Luigi Lambertenghi, Alfonso Longo,
Giuseppe Visconti di Saliceto, ecc. La società era aperta anche alle donne che,
in un modo o nell’altro, gravitavano intorno a loro, come la giovane zia dei
Verri, Antonia Barbiano di Belgioso, Fulvia Bigli e Luisa Grianti, mogli rispet-
tivamente di Tiberio Crivelli e Luigi Lambertenghi.
Pare che all’interno del gruppo Pietro Verri si desse molto da fare e non
solo come promotore culturale. Carlo Capra ne I progressi della ragione, a pro-
posito delle signore dell’ Accademia, afferma, con l’opportuna documenta-
zione, che «con ognuna di queste, in tempi diversi, è probabile che Pietro Verri
avesse rapporti non puramente amichevoli».51 Teresa non poteva di certo sfug-
gire alla regola.
Sui rapporti fra i due non mancano le prove. Iniziamo dalla più pittore-
sca, la testimonianza riferita dallo stesso Verri in una lettera al fratello Ales-
sandro, su una voce diffusa dal Beccaria «ch’io Pietro Verri avessi simulato
amicizia per lui solamente per poter chiavare sua moglie», mentre lui ci tiene
a precisare di avergli fornito prove di affetto sincero anche «dopo terminata
ogni corrispondenza con la ninfa». D’altronde, aggiunge impietosamente, non
ci voleva molto «per ottenere un bene che tanti altri hanno partecipato senza
far diventare celebre il marito».52
Alessandro è il destinatario preferito dei segreti di alcova del fratello. Da
un’altra lettera apprendiamo che il vero responsabile del comportamento disi-
nibito di Teresa era il marito: «a me pare impossibile che un uomo che lascia
per più e più mesi intatta una giovane moglie ne sia innamorato». 53 La tesi
secondo la quale Cesare non avesse consumato subito il matrimonio, costrin-
gendo la consorte a consolarsi con dei «supplenti» tra i quali anche Pietro e
forse qualcun altro dei Verri, trova conferma in un salace studio di Pier Carlo
Masini, il cui titolo, Manzoni, ci annuncia che le avventure galanti di Teresa
avrebbero potuto avere ripercussioni persino nell’ entourage dell’autore de
I promessi sposi. Giulia Beccaria, sempre secondo il Masini, sarebbe nata dalla
relazione extraconiugale di Pietro e Teresa. Questa ipotesi, tenendo conto che
Giulia sarà la madre di Alessandro Manzoni, non farebbe che ingarbugliare la
51. Carlo CAPRA, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, p. 187.
52. Gianmarco GASPARI (a cura di), Viaggio a Parigi e Londra (1766-1767). Carteggio di Pietro
e Alessandro Verri, Milano: Adelphi, 1980, p. 340.
53. Lettera di Pietro Verri ad Alessandro, 3 aprile 1767, in Viaggio a Parigi e Londra, p. 382.
Da una lettera precedente di Alessandro a Pietro, avevamo avuto la conferma che le pre-
stazioni di Cesare Beccaria lasciavano alquanto a desiderare, almeno secondo le «tabelle»
dell’epoca: «(…) il Beccaria non era capace di farle quel servizio tutt’al più che due volte
la settimana. Non avete veduto (…) come è grasso e grosso, a guisa di un castrato?» (Lettera
di Alessandro a Pietro, marzo 1767, Ibid., p. 356).genealogia dello scrittore, introducendovi Pietro Verri nel ruolo simultaneo di
nonno e di zio. Per districarci in questa intricata mappa famigliare, occorre
precisare che Alessandro Manzoni nacque a sua volta da una relazione di Giu-
lia con Giovanni Verri, il fratello minore di Pietro. Tirando quindi le somme,
Masini conclude che «Alessandro Manzoni Beccaria non sarebbe né un Man-
zoni né un Beccaria, ma un Verri per parte di padre e di madre, frutto di un
rischioso rapporto fra consanguinei». 54
Carlo Capra sposta invece in avanti, agli anni 1763-64, la cronologia della
relazione di Pietro con Teresa, il che escluderebbe la paternità di Giulia nata
nel 1762. Si trattò, secondo lo studioso, di «un flirt» di breve durata «a causa
dell’ incostanza della bella civettina», che però lasciò il segno nell’animo del
Verri. Le prove sono in un gruppo di lettere scritte da Pietro all’amico Giam-
battista Biffi nel corso del 1764:55 Teresa vi appare inizialmente sotto le sem-
bianze anonime, ma secondo Carlo Capra, inconfutabili, di una «petite amie»
che lo ha fatto soffrire con la sua civetteria.56 In una lettera del 28 dicembre
1765 la «petite amie» assume le sembianze ufficiali della «marquesine Beccaria».
Pietro conferma che il comportamento di lei lo ha ferito nel profondo dei suoi
sentimenti: «mon coeur – dice nella lettera-, elle l’a evalue tres-peu, peut-etre
avoit elle tort; ce qu’il y a de sur c’est qu’elle l’a perdu pour jamais». 57
Pietro cerca di mettersi l’animo in pace, dopo quella vicenda che lo aveva
coinvolto, lui che passava per un implacabile rubacuori, oltre il previsto. D’al-
tra parte, in quegli anni, era l’altro esponente della famiglia Beccaria, l’amico
Cesare che gli dava molte preoccupazioni. Dopo la pubblicazione, nel 1764, ed
il successo de Dei delitti e delle pene, i rapporti tra i due si erano guastati, a
causa dell’invidia di Pietro che si riteneva il vero autore del libro.58 Immagi-
niamo quale doveva essere la sua situazione, con i nervi a fior di pelle per il
Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria» Quaderns d’Italià 10, 2005 109
54. Pier Carlo MASINI, Manzoni, Pisa, Edizioni BFS, 1996, p. 14. Cfr. anche sull’argomento:
Pietro CAMPOLUNGHI, Romanzo e realtà nelle vere paternità di Giulia Beccaria e di suo figlio
Alessandro Manzoni (Verri), Autore Editore: Milano, 1998, e, dello stesso autore: «Ritro-
vata la lettera del Gorani a Giovanni Verri del 16 gennaio 1808» in Annali Manzoniani,
nuova serie, III, 1999, p. 305-314. Ancora sugli intrecci sentimentali dell’epoca: Alessan-
dro G IULINI, «Figurine milanesi nelle memorie Casanoviane» in Archivio Storico Lombar-
do, III-IV, anno XLVIII, 1921.
55. Cfr. lettere a Giambattista Biffi, del 9 agosto e del 30 ottobre 1764, in «Lettere inedite di
Pietro Verri», a cura di Guido Sommi Picenardi, in Rassegna nazionale, vol. CLXXXVII,
anno XXXIV, 1912, p. 55-57.
56. La lista è numerosa, come risulta da una lettera di Alfonso Longo del 10 gennaio 1767 che
ricorda a Pietro i nomi dei pretendenti a cui la «marchesina» ha rivolto le proprie atten-
zioni: «Rapelle-toi et Carchi et le Duc d’York, et Trotti et le Saxon, et mille autres avec elle
fut obligée a rompre (…)» (Viaggio a Parigi e Londra, p. 721-722).
57. Ibidem, p. 63. Il testo è riprodotto nell’ortografia originale.
58. Cfr. l’ambiguità con cui Pietro spiegò la genesi de Dei delitti e delle pene: «Il libro è del Mar-
chese Beccaria, l’argomento glielo ho dato io, e la maggior parte de’ pensieri è il risultato delle
conversazioni che giornalmente si tenevano fra Beccaria, Alessandro, Lambertenghi e me.
(…)Beccaria si annoiava e annoiava gli altri. Per disperazione mi chiese un tema, io gli sug-
gerii questo (…). Ammassato che ebbe il materiale io lo scrissi e si diede un ordine, e si
formò un libro» (Memorie, p. 157).110 Quaderns d’Italià 10, 2005 Giovanni Albertocchi
comportamento di Teresa di cui era chiaramente innamorato ed in più roso
dall’invidia per il successo di Cesare. Questo spiega, ma non giustifica, il livo-
re che si diffonde in quegli anni sulle lettere in cui Pietro parla dell’amico,
soprattutto dopo che costui, invitato a Parigi dal fior fiore dell’intellighenzia illu-
minista, non regge alla lontananza dalla moglie e decide improvvisamente di tor-
nare a casa.59 Limitiamoci a citare, a mo’ di esempio, l’ironia esercitata spesso
nel carteggio con il fratello Alessandro, sull’etimo «Beccaria» e sullo stemma
famigliare dell’amico che raffigurava, ahimè, un becco sullo sfondo dei tredi-
ci colli del feudo pavese di sua proprietà. 60 Cesare viene descritto ripetuta-
mente come un «becco contento», «becco fottuto», «becco matricolato», un
«pusillanime bamboccio» che tollera i tradimenti della moglie.
Ecco, come era andato a finire quel nobile sodalizio fra i due più presti-
giosi intellettuali dell’Illuminismo lombardo!
Qualche anno dopo la fine della storia con Teresa, Pietro, comunica al fra-
tello che la «marchesina» ci aveva riprovato ma che lui non ne voleva più sen-
tir parlare: «pare che vorrebbe ricominciar meco qualche buona intelligenza,
immaginati se un cuore che adora Maddalena può sedurre la testa in favore di
quella falsissima, leggerissima e bassissima civetta». 61 Teresa torna all’attacco
qualche anno dopo, «ma il suo regno – decreta perentoriamente Pietro —
è finito».62
Nel Manoscritto per Teresa, dove il Verri raccolse dal 1776 al 1782, consi-
gli e raccomandazioni per la figlia adorata, Teresa Blasco, è assunta come para-
digma negativo di un comportamento femminile che scoraggia, anziché sedurre,
il cuore degli uomini:
Noi uomini vogliamo possedere un cuore di cui l’acquisto lusinghi il nostro
amor proprio, se una stofa sta esposta per insegna dal mercante non si compra
quella per farsi un vestito, il mercante accorto ve la estrae da un ripostiglio ser-
rato a chiave, ve la presenta come cosa che difficilmente altrove trovereste, una
facile conquista ci fa nascere il capriccio di tentarla una volta, ma il nostro
cuore non vi ha parte nessuna, il tedio, la noia, il disprezzo sono i sentimenti
che lasciano nell’animo dell’uomo le donne facili e di molti.63
Queste riflessioni di un seduttore pentito, si concludono con il tragico fina-
le che attende le «donne facili e spensierate», le quali «per pochi piaceri divo-
rati furtivamente hanno sofferto mali gravissimi». «Tre dame – aggiunge lo
scrittore, includendovi naturalmente Teresa – ho conosciute al fiore dei loro
anni morte fra gli spasimi d’una malattia guadagnata colla loro inconsiderata
59. Secondo Sergio Romagnoli, i fratelli Verri, dopo l’avventura parigina si dedicarono «nel
segreto del loro carteggio a smantellare la personalità dell’antico amico» (La buona compa-
gnia, Milano: Franco Angeli Editore, 1991, p. 26.
60. Cfr. MASINI, p. 17.
61. Viaggio a Parigi e Londra, p. 722.
62. Ibidem.
63. Pietro V ERRI, Manoscritto per Teresa, a cura di Gennaro Barbarisi, Milano: Serra & Riva,
1983, p. 161.facilità e non medicata per lusinga, difficoltà e rossore».64 Il riferimento a Tere-
sa Blasco, deceduta il 14 marzo 1774, a soli trent’anni, a causa di «una tisi pol-
monare di origine celtica»,65 è evidente e confermato per di più nell’ «Indice dei
nomi» ove si identifica una delle tre dame come «Beccaria Teresa».
È ancora Pietro Verri, in una lettera ad Alessandro, a lasciarci una testi-
monianza sulla sua terribile agonia:
Il fondo del male è celtico, ve ne sono i contrassegni anche attualmente. Ha
febbre, è dimagrita, ha sputo di sangue, tosse, ecc. Ha nove medici ai fianchi.
Le cavano sangue, le pongono i vescicanti, e sulle piaghe spargono nuova-
mente polveri di cantaridi, dal che nascono convulsioni, si fa grande uso di
china e non si pensa alle frizioni, che pure sarebbero il solo rimedio da tenta-
re. Il male è serio, avanzato; di questi nove Esculapi la pluralità teme assai.66
Teresa Blasco fece in effetti una brutta fine e per di più nel fiore degli anni.
Noi però, anziché ricordarla sul letto di morte, con le inevitabili brutture della
malattia, assistita da nove medici, dal marito 67 e dall’amante, l’inseparabile
Calderara,68 preferiamo immaginarla ancora raggiante, in quella serata estiva,
«del color vestita del nascente verde, in un impareggiabile splendore, nell’o-
dore soave dell’ambra, del nardo e della rosa, pressata, come da api o galavron
che sul fragrante fiore ronzano e s’avventano, dai giovani più brillanti di Mila-
no (…)». Fra loro c’è ancora Fabrizio Clerici mentre intercetta le occhiate fur-
tive che si scambia con il giovane Beccaria e che decide saggiamente di ricorrere
al «contravveleno» del viaggio e della distanza.
Di lui, al contrario di Teresa, non si sono più avute notizie. Ci si chiede se
avrà fatto rientro a Milano, oppure se avrà realizzato il desiderio, cosa che noi
con il permesso di Vincenzo Consolo, ci augureremmo di vero cuore, di con-
tinuare a viaggiare ancora come sembrano palesare le sue ultime parole: «Dopo
la Sicilia – dice infatti alla fine del suo diario-, forse mi recherò in Ispagna o
ancora più lontano, di là dell’Oceano, nel Nuovo Mondo».69
Dietro il Retablo: «Addio Teresa Blasco, addio Marchesina Beccaria» Quaderns d’Italià 10, 2005 111
64. Ibidem.
65. I progressi della ragione, p. 397.
66. Lettera di Pietro ad Alessandro Verri del 19 gennaio 1774, in Carteggio di Pietro e di Ales-
sandro Verri, cit., p. 170.
67. Che si sarebbe comunque risposato soltanto tre mesi dopo, con Anna Barbò. I nuovi spon-
sali furono talmente vicini al decesso della prima moglie che Cesare pensava di vestirsi a
lutto il giorno della cerimonia. La nuova moglie, Anna Barbò dovette avvertirlo che non
era il caso: «Amabilissimo sposo, la signora madre m’incarica dirvi che senbra a lei non con-
veniente l’andare vestito a luto a participare il matrimonio, e però ha dato a me il piacere di
prevenirvi, acciò abbiate tempo di cambiare l’abito» (Lettera di Anna Barbò a Cesare Bec-
caria, 26 aprile 1774, in Carteggio, V, p. 434).
68. Pietro Verri in una lettera ad Alessandro del 16 marzo 1774, riconosce che il Calderara
«singolarmente si è distinto sino all’ultimo» (Carteggio di Pietro e di Alessandro Verri, cit.,
p. 198).
69. Retablo, p. 146