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 2022  giugno 18 Sabato calendario

I numeri dei partiti

Un elettore su due non è andato a votare alle comunali, e ai referendum quattro quinti dei cittadini non si sono presentati alle urne. Andiamo verso una democrazia meno democratica, governata da una minoranza, invece che dalla maggioranza? Questo distacco dalla politica deriva dalla sfiducia nella possibilità di influire sui corpi politici ai diversi livelli, oppure dalla insoddisfazione per le proposte dei partiti, quando sono formulate, o, invece, da una più generale anomia dell’elettorato, che viola il «dovere civico» (così la Costituzione) di votare?
Nel secolo scorso, dal 1974, ai referendum abrogativi si è recato a votare da un minimo del 43 a un massimo dell’87 per cento dell’elettorato. La forbice si è attestata nell’ultimo ventennio sul 23-54 per cento. Si è ora giunti al 21 per cento. Ma poteva andare peggio, perché, nei comuni dove si votava per le elezioni locali, circa il 51 per cento degli elettori ha ritirato le schede per i referendum; se non ci fosse stato questo contributo, i votanti per i referendum sarebbero stati circa il 15 per cento. Questa ulteriore diminuzione dei votanti non si spiega con fantasiosi complotti antireferendari, o con la scarsa pubblicizzazione, o con la difficoltà dei quesiti. Si può spiegare piuttosto con altre ragioni: diminuzione del numero dei votanti, in parallelo, nelle votazioni politiche e in quelle referendarie; consapevolezza della complessità della crisi della giustizia, che non può essere risolta con un sì o con un no.
Oppure si può spiegare con la finalità sollecitatoria dei quesiti, presentati o appoggiati da forze politiche largamente rappresentate in Parlamento e persino partecipi della maggioranza di governo; o con l’alta propensione all’astensione del movimento che aveva maggiormente appoggiato la democrazia diretta, da cui ci si poteva aspettare una forte spinta al voto (e che ha, invece, così contribuito alla crisi dei referendum).
Peraltro, se si passa ad esaminare i voti referendari, si può notare che vi è uno scarto di 20 punti tra i tre ultimi quesiti (separazione delle carriere, valutazione dei magistrati e candidature per il Consiglio superiore della magistratura), che hanno molto in comune con la riforma Cartabia e i primi due quesiti. Quindi, tra i votanti c’è un largo appoggio alle proposte del governo, quasi un invito del tipo: fate parte della maggioranza di governo, provvedete per la via legislativa. Questo messaggio è stato recepito dal Senato che ha sollecitamente approvato la riforma Cartabia. In questo senso, i risultati referendari non sono stati inutili, perché hanno avuto un seguito parlamentare.
Anche per le elezioni comunali l’affluenza alle urne è diminuita, in 10 anni, di circa 15 punti percentuali, da circa 70 a circa 55 per cento, con notevoli difformità a seconda delle zone geografiche. Ma la forte astensione a livello locale fa parte di un fenomeno più generale, di carattere mondiale. Nel Regno Unito, la patria del «self-government», solo circa un terzo dell’elettorato si reca alle urne per votare gli amministratori locali. È probabile che questo trovi la sua ragione nell’aumento delle dimensioni dei servizi pubblici, che sfuggono al controllo degli enti locali.
L’indice più preoccupante delle elezioni comunali riguarda la rapida emersione di alcune forze politiche e la forte riduzione di altre. Se si mettono insieme dati elettorali e sondaggi, si può notare che una delle forze politiche è aumentata di quattro volte e un’altra è diminuita di tre volte, nel giro di quasi 5 anni. Questo è ulteriore sintomo della crisi dei partiti. Quelli italiani hanno perso iscritti molto di più dei partiti tedeschi; presentano un’offerta politica debole o inesistente (non vi sono programmi); sono divisi all’interno; creano incertezza con continue dichiarazioni, spesso contraddittorie. Le forze politiche farebbero bene a cercare rimedi a questo stato di cose.