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 2022  giugno 18 Sabato calendario

Le notti con Kafka


I sentimenti paterni di Isaac Bashevis Singer? Lasciò il suo unico figlio Israel Zamir nel 1935 a Varsavia con la madre Runia Pontsch, per raggiungere il fratello Israel Joshua a New York nonostante in Polonia per gli ebrei i tempi già non fossero allegri, e se ne fregò totalmente mentre i due raggiungevano tra mille difficoltà prima l’Urss, poi, espulsi di lì, la Turchia e infine Israele dove si stabilirono. Isaac rivide Israel Zamir solo nel 1955, quando lui andò a trovarlo in America: non era un incontro semplice dopo tanti anni di abbandono e in Singer si agitarono i sentimenti più diversi: apprensione, smarrimento, voglia di fuggire, noncuranza, curiosità, meraviglia per i tratti, la voce, le parole del ragazzo. Poi, improvvisamente un clic, un qualcosa di telepatico gli fa sentire addirittura i pensieri di quest’estraneo sangue del suo sangue che non ha visto crescere, che ha combattuto duramente la guerra di Indipendenza israeliana, che parla solo ebraico mentre Isaac, come sappiamo, ha a quel punto scelto l’yiddish, la lingua madre, come identità e tempio, vena creativa, protezione dallo scorrere del tempo, “monastero linguistico” come l’ha definito la studiosa Ruth Wisse. A chi pensa, dopo aver letto innumerevoli biografie, che Singer fosse tanto un genio letterario quanto una sorta di mostro, un uomo capace di convivialità per la sua stessa gloria, ma freddo e narcisistico, concentrato solo nell’autocelebrazione, leggere Il figlio, uno dei ventuno splendidi racconti che appaiono ora ritradotti e pubblicati da Adelphi per la cura insostituibile di Elisabetta Zevi (titolo,Un amico di Kafka), sarà una sorpresa, soprattutto perché a tratti è commovente: ad esempio quando, nel guardare il vascello israeliano nel porto, Singer sente in qualche modo «di essere davanti a una nuova epoca della storia ebraica. Quando mai gli ebrei avevano avuto delle navi?». Oppure avverte «quella strana combinazione tra passato e presente» che rappresenta Israel Zamir ( scomparso nel 2014 in Israele dopo aver fatto il giornalista, lo scrittore, e anche il traduttore di suo padre), commovente soprattutto per come cerca e infine trova il ragazzo tra la folla guardando l’unica fotografia in sua mano, per il senso di appartenenza reciproca che infine riconosce, o per «tutte le inibizioni» che svaniscono mentre si parlano «con lo stesso stile, breve e secco», senza bisogno di spiegazioni. Presentata come una short story, in realtà Il figlioè una vera pagina di diario, ma del resto il nostro premio Nobel ha cosparso la suanarrativa di elementi autobiografici, non solo nel raccontare espressamente la corte rabbinica del padre o gli anni della formazione, ma anche nel creare personaggi che gli assomigliassero molto, con la loro poligamia, il loro interrogarsi sull’esistenza di Dio, il male, la Torah (citata in continuazione come il Talmud, per poi dire altrettanto spesso che non possiede nessuna verità e non serve a niente visto che non ha salvato gli ebrei dai nazisti), su quella doppiezza che abita come se fosse la sua stessa carne.
Molto di autobiografico c’è anche nel primo racconto Un amico di Kafka – che dà il titolo al libro – incentrato su protagonisti simili ad argento vivo che frequentano il Circolo degli scrittori di Varsavia dove veramente i fratelli Singer passavano le loro serate. Isaac qui dà il meglio di sé: zac, zac, due righe e descrive questo o quell’avventore, uno più deracineé dell’altro, soprattutto l’attore Kohn che era un dandy ma ormai è vecchio, curvo, povero ( l’io narrante, uno scrittore, non fa che prestargli degli szloty) e vive in una soffitta gelida ( come quella di Joshua Singer ai tempi di Varsavia) brulicante di demoni, anche se da giovane aveva frequentato Kafka appunto, e Chagall, Stefan Zweig, Martin Buber... Una volta, racconta Kohn mentre intorno turbinano musica e bevute, ha perfino portato Kafka (di cui considera pregi e difetti, letterari, esistenziali...), in un bordello: Franz non ce la fece, ne uscì vomitando. Lui, invece, Kohn, ha una visita notturna in soffitta chelo fa risentire un uomo: niente più impotenza, un miracolo!
Ah Singer, che fuochi d’artificio! Quando si legge questo naturale storyteller ci si sente investiti dalla potenza piena della narrazione. I racconti spaziano tra l’America e Varsavia, o tra i paesini più nascosti della Polonia ebraica: in uno, si narra di misteriosissime scomparse di cose e persone in cui di sicuro provocate da qualche dybbuk o spiritello, in un altro, I poteri, un ebreo senza fede, lo va a trovare a New York e gli dice di come può trovare tesori, vedere una luce sulla testa di chi sta per morire, comandare alla sua donna (ma ne ha avute mille) persino di avere il ciclo. In un altro ancora, Il blasfemo, mille tormentosi dubbi su Dio sono squadernati in fila. È una collezione che si mangia come un gelato, con enorme piacere. Spesso, l’abbiamo detto, compaiono i suoi amati diavoli e folletti: ci credeva davvero? In qualche modo sì, come in fondo credeva anche al Signore che ha creato il cielo, le stelle, l’universo, non a caso l’ultima storia si intitola Qualcosa c’è.