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 2022  giugno 18 Sabato calendario

Intervista a Tessa Hadley

Tessa Hadley indossa con grazia una definizione lusinghiera che la colloca d’ufficio su uno scaffale alto: è a writer’s writer, una scrittrice amata dagli scrittori. Da Chimamanda Ngozi Adichie, che la giudica «una dei migliori romanzieri di oggi», a Zadie Smith – «Pochi autori riescono a darmi una gioia così costante» – a Hilary Mantel: «Recluta nuovi lettori a ogni libro». Peccato però lasciarla lassù, è un’autrice da amare a vasto raggio, capace di orchestrare storie squisitamente inglesi per lingua e clima ma pronte a risuonare dentro tutti noi. Nel 2017 è uscito per Bompiani il suo romanzo Il passato: come mostra la copertina, un’infilata di stanze, e dunque una casa, ogni stanza un mondo, vite che si rincorrono, rumore di passi, risate, dolori, bambini. La casa come luogo di riunione e resa dei conti. Ora è la volta di L’arte del matrimonio, titolo bergmaniano (l’originale è Late in the day, mutato col placet dell’autrice) per una storia che è musica da camera: un quartetto di amici-amanti-amici-amanti in ordine sparso e confuso dentro trent’anni di vita, anche di più, sbilanciato dalla morte improvvisa di uno di loro, Zach, gallerista di successo tutto bonomia e generosità, che lascia soli e smarriti la moglie Lydia e l’altra coppia, Christina, artista ancora così incerta di sé, e Alex, poeta di qualche speranza e poi insegnante. Quando erano molto giovani ma non necessariamente molto felici Lydia ha corteggiato con tenacia Alex, allora sposato con un’altra donna, prima di arrendersi e cedere il passo a Chris. Zach e Chris hanno nutrito negli anni un’intesa basata sul comune amore per l’arte. Ci sono anche i figli, la nuova generazione cresciuta respirando bohème e middle class (combinazione non semplice). E c’è una vacanza di anni prima a Venezia, dipinta benissimo – ci vuole garbo e misura, oltre che profonda conoscenza dei luoghi, per raccontare l’Italia da non italiani senza cadere nel pittoresco – e preziosa per capire chi sono, chi erano, chi volevano essere questi quattro esseri umani forse sempre troppo vicini per vedersi bene a vicenda. Noi in compenso abbiamo il privilegio del lettore e dalla nostra olimpica distanza li vediamo come sono, anzi, come l’autrice vuole che siano: piccoli e grandi, a volte tutte e due le cose insieme, dunque imperfetti, dunque credibili.
L’arte del matrimonio sarà al centro del prossimo Bompiani BookClub, l’occasione per indagare online, insieme a una rete di librerie e gruppi di lettura, luci e ombre del romanzo, e insieme la sua storia editoriale. Ogni tanto gli autori partecipano agli incontri del BookClub, o rispondono a domande a distanza; Tessa Hadley lo fa qui, a mezzo intervista.
C’è tanta musica in questo romanzo, fin dall’inizio – Londra, sera d’estate, finestre aperte, fuori la città che si spegne, dentro Schubert. Un telefono che squilla. Il montaggio della storia è preciso, da forma-sonata, fatto di echi e simmetrie. Il presente e i passati si alternano con una cadenza che consente al lettore di avvicinarsi ai protagonisti lentamente, e poi di allontanarsi, con qualche sorpresa. Quanto è importante la struttura nel suo scrivere?
«Quando arriva la notizia della morte di Zach, Chris vuole fermare la musica, ma suo marito Alex quasi la costringe a lasciar finire il brano, le posa le mani sulle spalle per trattenerla. Cerca insieme a lei nell’arte un momento di consolazione da un dolore così improvviso, la scomparsa di un amico, una persona amabile, nel fiore degli anni. Non è stato deliberato, ma in verità sì, nella costruzione del romanzo, con la sua forte dimensione presente e i tre affondi nel passato, c’è qualcosa di musicale: come la musica, accade nel tempo, avanza e torna su di sé. Ho sempre bisogno di struttura, non potrei mai cominciare una storia e poi stare a vedere dove mi porta. Mi piacerebbe, forse, scrivere un romanzo in ordine strettamente cronologico, ma so che alla fine non ci riuscirei. Qui avevo bisogno di incrociare e intrecciare le storie, e anche di un evento molto forte molto presto. Gli scrittori sono orribili: ho capito che Zach doveva morire, e così l’ho fatto morire subito. Non era il caso di imbastire e far crescere una commedia sociale per poi far esplodere una bomba a metà strada. Poi ovviamente via via che la materia si sviluppa arrivano le preoccupazioni: in questo caso avevo due timori, che la storia risultasse troppo complessa nei suoi andirivieni, e che fosse troppo triste».
Invece no. È una storia che trabocca di vita, vissuta e trasformata e trasformante. C’è tanta vitalità anche in Chris, così trattenuta, timidamente artista, sempre incoraggiata da Zach e però poco apprezzata dal marito Alex.
«Il romanzo è in gran parte la sua storia: il percorso di una donna che chiude a chiave, letteralmente, la porta del suo studio alla scomparsa di Zach perché è come disgustata anche solo dal pensiero della propria arte davanti alla morte dell’amico. Le ci vorrà un anno, che poi è l’arco temporale del romanzo al di là delle incursioni nel passato, per ritrovare quello spazio dentro di sé. Ma Chris è sempre stata abitata dai dubbi, incerta, ha tenuto il suo percorso per sé, non sa se le sue piccole cose, piccole anche in senso concreto, sono arte. La cosa buffa è che nemmeno noi da spettatori lo sappiamo per certo, dunque condividiamo quel dubbio. D’altra parte lei è quella che corre rischi: nell’arte bisogna concedersi di essere un po’ infantili, abbandonarsi, rendersi ridicoli. Non è per tutti».
I dubbi di Chris riguardano anche la vita dei sentimenti. “Ma non è impossibile comunque amare qualcuno per tutto il tempo? Per questo il matrimonio è un contratto,” dice. E poi c’è la sua amica Lydia. “Non sono molto brava a essere felice,” dice di sé. Lei ha il talento di limitarsi a vivere, “come un’aristocratica di un’altra epoca."
«Mi piacciono le donne come Lydia nei miei romanzi, complete, romantiche, intere. Lei sembra ben assestata nella sua storia, ha creato un mito originario di sé, si è costruita un suo lieto fine su cui modellare la vita. Mi è stato più facile immaginarmi Chris, i suoi moti, la sua indefinitezza, però mi affascina molto Lydia, il suo modo così totale di credere nella fiaba della sua vita. Se uno è romantico il romanticismo per lui è vero, punto e basta».
Una bella sicurezza. Zach è a sua volta sicuro e compiuto. Esce di scena subito e già manca anche a noi lettori. Alex invece è così scontroso, così chiuso.
«Zach è equilibrato in sé, e molto bravo a tenere l’equilibrio fra gli altri tre. “Di tutti noi, è proprio lui che non potevamo permetterci di perdere”, pensa Christine. E infatti quando lui viene a mancare tutto crolla. Alex invece, dopo i suoi tormenti di autore frustrato – ha scritto un solo libro da giovane e ha trovato a fatica la sua vera strada – è pronto per traghettare nella mezza età, finalmente trova una misura dopo che per tutta la vita è stato alla ricerca di sé».
L’episodio veneziano, con quel momento rapito della contemplazione del soffitto della Scuola Grande dei Carmini, è un passaggio fondamentale narrato con una gran felicità di scrittura. “Erano più belli nella luce marcata sotto la tenda, e si sentivano importanti”.
«La vacanza a Venezia è il sommo della felicità dei protagonisti. Le complicazioni della giovinezza sono dietro le spalle. Possono godersi un tempo intero, senza distrazioni o fastidi. È un momento culminante. Quanto alla parte artistica, mio fratello è uno storico dell’arte esperto di Tiziano, le visite fatte con lui sono state importanti. Di Tiepolo però mi ero già innamorata per conto mio».
I personaggi minori – la mamma di Alex, Margita, emigrata dalla Cecoslovacchia; i genitori di Lydia, proprietari di un pub, pratici e arguti – aggiungono con pochi tocchi una profondità anche storica e sociale alla storia. Quanto è importante questa sorta di cornice per lei?
«È fondamentale. Io comincio dalle storie e dalle persone, ma poi il racconto include per forza un paesaggio sociale e culturale preciso. Margita, che ha un legame ambivalente col suo passato, piange davanti alla televisione seguendo la caduta del muro di Berlino. Non potrei mai scrivere un romanzo ambientato nel nulla. Mi viene inevitabile pensare al grande romanzo inglese, a Jane Austen: nei suoi romanzi si parla di soldi, di psicologia, di classe, ma anche di sensazioni, sentimenti, delusioni. C’è tutto della vita, proprio tutto».
Il prossimo anno Bompiani pubblicherà il suo “Free Love”, la storia di una donna che negli anni sessanta lascia marito e figli per un uomo molto più giovane. Ci sono autori che scrivono sempre lo stesso romanzo, altri che ogni volta cambiano strada. Lei da che parte sta?
«Mi piace pensare che ogni storia che scrivo, racconto o romanzo, sia del tutto nuova, eppure poi torno inevitabilmente a raccontare gli aspetti della borghesia inglese. Da bambina volevo sempre conoscere le storie della mia famiglia, dell’infanzia dei miei. Ho il nostro albero genealogico stampato in testa, credo di essere l’unica a ricordare che mio nonno è nato nel 1887, e i nomi dei suoi due fratellini morti molto piccoli. Ecco, è questo che mi interessa, sempre. Le stratificazioni delle famiglie, una generazione che cola nell’altra. Ho tre figli, tre sono i figli del mio compagno, insieme abbiamo otto nipoti: mi viene naturale appassionarmi a come la vita si estende, si ramifica, a come cresce fuori di controllo, stupefacente, straordinaria. E amo studiare il cambiamento: all’inizio di Anna Karenina ricordo la madre di Kitty come una donna attiva, elegante, vivace. Ma poi la vediamo anche invecchiata e smarrita, in un’altra versione di sé. Ecco, il romanzo è l’unica forma in cui si può cercare di far stare tutto così. Il romanzo, e qualche bel film. Penso a Fanny e Alexander di Bergman, il film per eccellenza che dispiega una vasta tela affollata di parenti e amici – e sono contenta se il titolo del mio romanzo suona un po’ alla Bergman in italiano».
Libri che ha amato di recente?
«Rivka Galken, Lo sanno tutti che tua madre è una strega, e La promessa di Damon Galgut. E rileggo spesso Natalia Ginzburg, ormai una delle mie predilette».