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 2022  giugno 18 Sabato calendario

Intervista a Leila Slimani

È all’inizio di una sfacciata primavera che Mathilde osserva il suo giardino e pensa: « almeno per i fiori, il Marocco è una terra benedetta. » Il calendario segna l’anno 1968 e una nuova ondata di rivoluzioni e di urgenza di emancipazione sta per esplodere in Europa e in Nord Africa - « un cambiamento di atmosfera, un riserbo, un’illusione collettiva di concordia e di uguaglianza». I lettori che hanno imparato ad amare la scrittura profonda e sensuale di Leila Slimani e con essa i personaggi del primo volume del Paese degli altri, la trilogia con cui la scrittrice franco-marocchina intende donare un’ambizione letteraria al Marocco, hanno atteso impazienti la pubblicazione in Italia della seconda parte della saga della famiglia Belhaj, adesso edito da La nave di Teseo con il titolo E noi balliamo, tradotto da Anna D’Elia. Nel primo volume avevamo lasciato Mathilde e Amin in un Paese in piena rivolta militare per ottenere l’indipendenza dalla Francia coloniale. Lei è un’alsaziana bella e coraggiosa, profondamente innamorata di quel marocchino incontrato nel 1944, quando era arrivato al seguito di un reggimento di stanza nella sua cittadina francese. Dopo il matrimonio la coppia si trasferisce a Meknes, una cittadina verde e lussureggiante lontana dal vento tormentato delle grandi metropoli della costa. Sin dal suo arrivo in Marocco, Mathilde impara l’arabo e il berbero e, dopo aver passato tre anni nella medina, la famiglia si stabilisce in una fattoria, dove Amin si dedica ai suoi progetti di agronomo, mettendo a punto nuove varietà di agrumi e di ulivi, e dove nasceranno i loro due figli: Aisha, bambina ispirata e ribelle, orgoglio del padre, che adesso studia medicina a Strasburgo, e Selim, un ragazzino magro e biondissimo coccolato dalla madre.

In E noi balliamo ritroviamo Mathilde e Amin determinati a godersi infine la vita dopo tanti sacrifici e ad approfittare di quel clima di distensione sociale che spira come una brezza borghese sul Marocco. Ottenuti i primi successi come imprenditore, Amin è infine ammesso al Rotary Club e ai ricevimenti della borghesia di Meknes, ora più che mai rispettosa (almeno all’apparenza) del nuovo ceto emergente marocchino - e Mathilde reclama una piscina nel giardino di casa. Accanto a loro si muovono le storie di Selma, la bellissima sorella di Amin costretta a sposare Murad, il caposquadra della fattoria con un passato nell’esercito, dopo una relazione con un pilota francese, quella di Dragan Palosi, ginecologo ungherese amico della famiglia Belhaj, e della sua seducente moglie Corinne e soprattutto quella di un Paese intero che, dopo decenni di lotte e di povertà, reclama il suo diritto ad abbandonarsi a una dolce vita marocchina.

Con serietà e delicatezza, con una profonda conoscenza delle eterne dinamiche che reggono le debolezze umane, dall’amore all’infedeltà fino all’incesto, Leila Slimani costruisce un romanzo totale del Marocco degli Sessanta e Settanta, sospeso tra rivendicazioni politiche e bisogno di emancipazione, tra movimenti hippies e professori illuminati - fino ad un’apparizione quasi onirica di Roland Barthes. Sono soprattutto le donne a rivendicare il diritto a una nuova dignità, lottando contro il patriarcato e un sistema di potere profondamente radicati in Marocco, fino a diventare il motore e la bandiera del cambiamento. Il lettore di E noi balliamo si ritroverà così immerso in una narrazione che forma un affresco totale di questa terra passionale e assetata di rivincita - fosse soltanto per il tempo di un ballo, come dice il titolo, nei rigogliosi giardini di quel Paese che finalmente non è più soltanto quello degli altri.


Due ore di fuso orario mi separano da Leila Slimani in questo tardo pomeriggio di fine maggio, ma il mar Mediterraneo cui entrambe siamo affacciate con un orecchio incollato al telefono è lo stesso: io mi trovo ad Atene, in un caffè di fronte al museo dell’Acropoli mentre prego che i turisti non facciano troppo baccano, lei a Lisbona, mentre spera che i suoi due figli si comportino bene per il tempo di un’intervista.
Entrambe a un certo punto della nostra vita abbiamo fatto i bagagli e per vivere abbiamo scelto un «paese degli altri», titolo della sua appassionata trilogia dedicata alla storia del Marocco: io mi sono trasferita in quella Francia che lei ha abbandonato un anno fa per trasferirsi in Portogallo, ma entrambe per i paesi che sono i nostri sentiamo nostalgia – ed è per essi che scriviamo nelle nostre lingue materne. Questa la mia prima domanda: è possibile per uno scrittore rifarsi una vita e una scrittura altrove, in un paese straniero in cui intorno si parla una lingua che non è quella in cui si scrive, oppure questo cambiamento di prospettiva resta sempre imperfetto fino a trasformarsi a un certo punto in esilio? «Vivo a Lisbona ormai da un anno e non saprei cosa rispondere, perché il mio paese da sempre è la scrittura – mi dice-. Quando si scrive, nient’altro intorno esiste per me; tutto ai miei occhi perde interesse e meno sono occupata da ciò che accade intorno, più mi concentro sul gesto di scrivere. In questo senso Lisbona è stata per me una benedizione».
Dev’essere per questo, penso, che il mio compagno odia tanto Leila Slimani: non ha mai letto i suoi libri, ma utilizzo spesso come minaccia una frase della scrittrice che avevo letto nel suo libro Le parfum des fleurs la nuit: «scrivere significa sapere di no». E noi balliamo è la prima edizione straniera del secondo volume della saga Il paese degli altri, ma Leila quasi non sembra esserne al corrente, tanto è immersa nella geografia della sua scrittura. Le chiedo di spiegarmi il senso del suo progetto letterario. «Con questa trilogia ho cercato sia di raccontare il Marocco e la storia della famiglia Belhaj sia di scrivere in una forma universale, in modo che chiunque possa identificarsi ai miei personaggi – spiega-. In particolare sono le donne dei miei romanzi a farsi portavoce di aspirazioni e desideri che sono comuni a tutte le battaglie femminili: Mathilde è una donna che ha voglia di libertà, di avventura, che crede che l’amore sia una forma di emancipazione. I protagonisti di E noi balliamo appartengono alla generazione dei miei genitori che hanno vissuto gli anni Sessanta e Settanta in Marocco, un’epoca un po’ hippy segnata dai grandi movimenti civili e della controcultura, e che dopo anni di guerra in nome dell’indipendenza e di sacrifici economici reclama il diritto a vivere una parentesi di leggerezza, una dolce vita in chiave marocchina. Si tratterà di una bolla di sapone che finirà per evaporare presto, soppiantata da un decennio di attentati e violenza».
Quando qualche giorno fa ho iniziato a leggere “E noi balliamo”, ho avuto fin dalla prima frase la sensazione di trovarmi in Marocco. La scrittura emana profumi e calore, i protagonisti si muovono in giardini rigogliosi colorati di piante di cui non conoscevo il nome. Come ridare dignità letteraria e insieme fisicità a un Paese che è sempre stato lontano, tanto dalla letteratura quando dall’esperienza diretta dei lettori?
«Il Marocco è il Paese in cui sono cresciuta, le mie sensazioni sono forti perché legate irrimediabilmente all’infanzia. Ho una relazione così sensuale con questo Paese: è in Marocco che ho imparato il nome dei colori, che ho visto per la prima volta gli animali, che ho scoperto i miei primi sapori. Qui il rapporto con i sensi è molto intenso, si mangia con le mani, si vive all’aperto, i colori sono ovunque, non soltanto nella natura ma anche sui vestiti e sui muri delle case».
Lei però in Marocco non vive più da molti anni, l’ha lasciato da ragazza per studiare a Parigi.
«Credo che la letteratura abbia innanzitutto bisogno di distanza, sia fisica sia spaziale. Il fatto di non vivere più in Marocco mi permette d’inventarlo, di costruirlo con la sola forza dell’immaginazione, di produrre qualcosa di più vivo di una mera descrizione».
La carnalità delle sue pagine, insieme ai personaggi femminili, mi hanno ricordato Elena Ferrante e il suo rapporto viscerale con Napoli. Immagino di non essere la sola a dirglielo.
«Amo molto Elena Ferrante, non soltanto per L’amica geniale ma per tutta la sua opera, in particolare I giorni dell’abbandono. Come lei ho cercato di esprimere quell’acuto sentimento di violenza, in particolare contro le donne; nei miei libri alla prevaricazione sociale si aggiunge la discriminazione razziale».
E come descriverebbe allora le donne di “E noi balliamo”, il vero motore della storia?
«Le donne sono l’epicentro della vita emotiva e sociale della famiglia. Hanno una capacità di leggere i sentimenti propri e altrui con una sensibilità molto più fine rispetto agli uomini. I personaggi maschili sono altrettanto importanti: è attraverso il loro sguardo e il loro rapporto con gli altri che la vicenda si snoda fino all’epilogo finale. Paradossalmente, anche se sono più liberi, gli uomini dei miei romanzi sono meno felici rispetto alle donne: è un’epoca di forte patriarcato, in cui i maschi devono essere forti, giocare con il fuoco della politica, accettare di corrompere o essere corrotti. Le donne sono più stabili, più integre, hanno una vita interiore più ricca, anche se dominate sono più libere perché sanno che non hanno altra scelta se non combattere».
In “E noi balliamo” la pretesa di libertà di un Paese determinato a emanciparsi dal suo passato coloniale diventa lo specchio di tante rivendicazioni private in nome di una vita più giusta. Che rapporto vede tra la libertà del Marocco e quella individuale dei protagonisti del suo libro?
«Non credo all’utopia della libertà assoluta, perché sarebbe una solitudine assoluta impossibile da vivere. Essere del tutto liberi significa essere disposti a perdere tutto, e non sono sicura che ne valga la pena. Non appena s’inizia ad amare, un uomo, un figlio, un Paese, diventiamo meno liberi, ma spesso è questo il senso della felicità – una danza tra ciò che ci riempie e insieme ci limita, una sete di libertà e insieme di un orizzonte che non potremo mai raggiungere. Il senso è invece chiedersi cosa possiamo dare agli altri, quale felicità concedere – spesso è la libertà altrui a contare più della nostra.
E della situazione attuale che ne pensa? Noi donne godiamo di una libertà incomparabilmente più grande di quella di Matilde e Selma, eppure facciamo ancora fatica a uscire dai ruoli in cui siamo prigioniere o ad individuare un nemico preciso in una società sempre più fluida.
«Sono ottimista. Ciò che accaduto negli ultimi anni con il movimento MeToo è straordinario, una rivoluzione culturale e una presa di coscienza senza precedenti. Vedo persone intorno a me che non avevano alcuna referenza di femminismo rendersi conto di tutto ciò che era nascosto e taciuto in un vaso di Pandora che è stato finalmente aperto. Non è un movimento soltanto di denuncia, ma di creazione luminosa, con un grandissimo numero di nuove voci femminili che scrivono, realizzano film, fanno musica e arte. Anche in Marocco il cambiamento è in corso: soltanto venticinque anni fa le donne non potevano divorziare o votare; c’è ancora molto da fare, ma le donne, sempre più istruite e libere, sono in prima linea per reclamare i loro diritti».
E in quanto scrittrice? Accade anche a lei di sentirsi dire che scrive “libri per donne”, mentre gli uomini in generale scrivono libri per tutti?
«Ovviamente sì, spesso. Sono convinta che se Il Paese degli altri fosse stato scritto da un uomo, una certa parte della critica avrebbe fatto più attenzione alla componente fortemente politica e sociale: tutto ciò viene preso meno sul serio, concentrandosi invece sulle donne, sull’amore, sulle scene di sesso che appaiono particolarmente scandalose perché scritte da una donna e per di più musulmana. Nel mio caso specifico, accade che i miei libri siano messi sotto la lente non soltanto del genere, ma anche del razzismo in quanto marocchina. In ogni caso m’importa poco, i lettori sono più che mai in grado di leggere e comprendere la portata dei miei testi».
Come tutti i nostri libri, anche il nostro dialogo di oggi ha come epicentro il profondo Sud dell’Europa e del Mediterraneo, a Lisbona come in Grecia. Per troppo tempo il nord Africa è stato dimenticato o cancellato dalle mappe. Esiste in Marocco oggi una coscienza europea, civile e letteraria?
«La frattura che separa il Mediterraneo del Nord da quello del Sud mi ferisce e mi preoccupa, perché è una menzogna. Sento una grande familiarità con il popolo del Mediterraneo, in Sicilia come in Tunisia, in Sardegna come in Grecia. Ho l’impressione di essere nello stesso mondo bagnato dalla stessa luce, dove le genti si somigliano nel corpo e nei gesti, dove pulsa lo stesso passato fatto delle stesse rovine di cui lei parla». —