il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2022
L’ultimo film di Avati
Impresa difficile, se non proibitiva, quella di fare un film sulla vita di Dante Alighieri. Un po’ per la sua grandezza, un po’ per la complessità della sua vicenda umana, un po’ perché non esiste niente di autografo del poeta – neanche una ricevuta, un documento, una lista della spesa, niente. Pupi Avati riesce nell’impresa di ricostruire la vita del più grande poeta di sempre con uno stratagemma molto intelligente: raccontarla attraverso le parole del suo primo biografo “ufficiale”, Giovanni Boccaccio, che oltre a essere Boccaccio è stato critico, filologo, promotore della Divina Commedia (si dedicò anche a ricopiarne i canti).
La trama: incaricato dai capitani di una compagnia fiorentina, trent’anni dopo la morte di Dante, di portare alla figlia del poeta – ormai suora a Ravenna – un sacchetto di fiorini a titolo di risarcimento, l’autore del Decameron ripercorre le tappe di Dante verso l’esilio in Romagna e incontra persone che lo avevano conosciuto, ascolta racconti, ricostruisce. E si commuove, spesso, anche solo a sapere di essere al cospetto di qualcuno che “lo ha visto”, perché per Boccaccio Dante è stato “un secondo padre”, grazie alla sua poesia, alla Commedia.
Sergio Castellitto è, come sempre, molto bravo e credibile – non era facile qui – e riesce a far passare non solo l’amore che l’allievo nutre per il “maestro”, ma anche la spasmodica curiosità che lo muove per scoprire maggiori dettagli di quella vita. Perché lungo tutto il viaggio di Boccaccio/Castellitto Pupi Avati “mette in scena” i tanti episodi del racconto, da quando Dante incontra Beatrice per la prima volta – a una festa, e se ne innamora subito – fino alla morte del poeta.
C’è il racconto ascoltato dal giovane Dante su Francesca da Polenta e Paolo Malatesta – con l’orrido marito di lei, Gianciotto, che li uccide e poi “si risposa subito”; c’è quello della storia tragica del conte Ugolino e dei suoi figli, che la Commedia ne alimenta il mistero – Borges ha sentenziato: “Dante non ci dice che Ugolino ha mangiato i suoi figli, ma ce lo vuol far sospettare”; c’è l’amico fraterno e poeta, Guido Cavalcanti, insieme anche nella battaglia di Campaldino, ma poi l’ingresso di Dante nel Priorato di Firenze farà rompere l’amicizia, e poi morire l’amico – infatti nella Commedia quando Dante è all’Inferno, tra gli eretici della città di Dite, a fianco di Farinata degli Uberti incontra Cavalcante de’ Cavalcanti, il padre dell’amico, e si commuove.
E poi nel film di Avati c’è tutto il disprezzo del poeta per quel papa, Bonifacio VIII, suo acerrimo nemico, che si fece eleggere per portare pacificazione tra guelfi bianchi e neri, invece poi parteggiò per i neri.
Il viaggio mondano dell’esiliato che si intreccia col viaggio oltremondano del poeta, la Divina Commedia, scritta da Dante in questo esilio. E Avati ce lo fa vedere Dante che la scrive, su grandi lenzuola prende appunti, mette personaggi: ci fa anche vedere quando appunta il nome di quel Filippo Argenti che in vita lo schiaffeggiò, e che poi lui metterà all’Inferno, nella palude di Stigia, straziato oltremodo dai diavoli sotto i suoi occhi, impassibili – aplomb che gli fa meritare un bacio da Virgilio, l’unico in tutta la Commedia (quello tra Paolo e Francesca è solo evocato, ndr).
Pupi Avati, prima della proiezione di ieri all’Auditorium della Conciliazione a Roma – sotto gli occhi, tra gli altri, del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dei presidenti delle due Camere, Maria Elisabetta Casellati e Roberto Fico – ha detto di aver iniziato questo progetto trent’anni fa, insomma un sogno della vita che si realizza: “Provate a pensare come mi sento stasera…”. E il regista, infatti, qui deve fare il doppio salto mortale per mettere insieme il racconto. Molto per le difficoltà di cui sopra e molto perché nella sua carriera Avati ha sempre raccontato quanto fosse epica anche una giornata qualunque di un uomo qualunque – ha sicuramente letto l’Ulisse di Joyce in gioventù. Qui ha dovuto fare il contrario, raccontare la vita “qualunque”, quotidiana di un uomo epico, leggendario, enorme. E ci è riuscito, costruendo un racconto pulito, onesto e soprattutto didattico – lo si faccia vedere a scuola questo film, aiuterà ad amare senza reticenza lo studio della Commedia.
Commovente vedere per l’ultima volta sul set Gianni Cavina, al quale Avati dà la parte di Piero Giardina, morente a letto, come era la condizione dell’attore durante le riprese. Perché raccontare la vita di Dante non è raccontare solo la vita di un grande poeta, ma di un uomo “che conosceva i nomi di tutte le stelle, una ad una”, forse per quello volle uscire a rivederle. Ma soprattutto significa raccontare di un uomo che attraverso un’opera ha cercato Dio. E lo ha trovato là, “alla fine di tutti i disii”.