il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2022
Prendetevi Assange”. Così Londra ubbidisce agli ordini degli Usa
Non c’è dubbio che abbiano brindato. Il Pentagono, la Cia, la Nsa, il cuore del complesso militare-industriale degli Stati Uniti che, da oltre un decennio, vuole vedere Julian Assange e i giornalisti di WikiLeaks annientati, ieri hanno sicuramente festeggiato la decisione della ministra dell’Interno inglese, Priti Patel, di dare il via all’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti. Nessuno si aspettava nulla di diverso da Patel o dalle autorità britanniche, che l’hanno presentata come un atto dovuto. “Il segretario di Stato ha il dovere di firmare un ordine di estradizione, se non ci sono basi legali che proibiscano di farlo”, recita il comunicato stampa dell’Home Office.
In realtà, le basi ci sono eccome: lo denunciano tutte le più grandi organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani e della libertà di stampa. Il problema è che vengono ignorate dalle autorità inglesi. Da sempre. Nel 2015, per esempio, il Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite stabilì che Julian Assange era detenuto arbitrariamente da Regno Unito e Svezia: i due stati dovevano liberarlo e risarcirlo. Di norma quando gli stati autoritari detengono arbitrariamente giornalisti e attivisti, democrazie come il Regno Unito ne chiedono la liberazione. Ma nel caso di Assange, no. Londra bollò la decisione dell’organo delle Nazioni Unite come “francamente ridicola”, provò ad appellarla, perse e da lì in poi la ignorò, come una dittatura qualsiasi. Oggi il caso svedese è archiviato per sempre, l’unica ragione per cui Julian Assange si trova nella prigione più dura del Regno Unito, Belmarsh, è che gli Stati Uniti vogliono estradarlo e seppellirlo in una prigione di massima sicurezza, ancora più estrema di Belmarsh, per aver rivelato i documenti segreti del governo americano, che hanno permesso di scoprire crimini di guerra e torture. Questi documenti furono passati a WikiLeaks da una delle più grandi fonti giornalistiche di tutti i tempi: Chelsea Manning, che per la sua scelta etica ha passato otto anni in prigione e ha provato a suicidarsi tre volte.
Invano, negli ultimi tre anni, il Working Group dell’Onu ha continuato a chiedere al Regno Unito di liberare Assange. Così come ha fatto con il Relatore Speciale delle Nazioni United contro la tortura, Nils Melzer, il quale ha denunciato pubblicamente che Julian Assange subisce da anni torture psicologiche e non va estradato negli Stati Uniti, dove rischia trattamenti inumani e degradanti, come accaduto a Manning.
Poi è stata la volta delle organizzazioni per i diritti umani: da Amnesty International a Human Rights Watch, tutte hanno denunciato il trattamento del fondatore di WikiLeaks e hanno condannato l’estradizione e chiesto la sua liberazione. Poi le organizzazioni per la libertà di stampa, da Reporters Sans Frontières all’International Federation of Journalists. E perfino una coalizione di ben 300 medici di 35 paesi ha chiesto alla ministra Patel “di non essere complice, lei, il suo governo e il suo Paese, nell’esecuzione lenta di questo giornalista che ha vinto premi”.
Niente e nessuno è riuscito a fermare Priti Patel e le autorità inglesi. “Sono devastato da questa decisione”, dice al Fatto Joseph Farrell, giornalista britannico che ha lavorato con WikiLeaks fin dal 2010, “(è la decisione, ndr) di una nazione che dice di difendere la libertà di stampa, ma si comporta in modo tirannico, con la complicità totale di Boris Johnson. Come può un giornalista dormire sonni tranquilli nel Regno Unito, dopo questa decisione di estradare Julian Assange per aver esercitato il suo diritto di pubblicare? È un attacco diretto a quello che teniamo caro nelle nostre democrazie. Crea un precedente non solo nel Regno Unito e negli Usa, ma nel mondo intero, che dovrebbe terrorizzare tutti”. Di fatto Ben Wizner dell’autorevole organizzazione americana per la difesa dei diritti umani e civili, l’American Civil Liberties Union, ha denunciato l’effetto domino del caso Assange sulla libertà di stampa nel mondo: “Se gli Stati Uniti possono incriminare un editore straniero per aver violato le nostre leggi sulla segretezza, nulla può impedire che la Cina o la Russia facciano lo stesso”. Ma Stati Uniti e Gran Bretagna hanno ignorato tutto e tutti.
WikiLeaks ha subito annunciato che appellerà la decisione di Priti Patel. E si profila una battaglia legale fino alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. La stessa che, questa settimana, ha fermato i piani di Patel e del governo inglese di Johnson di deportare i richiedenti asilo in Ruanda. “(Questa decisione, ndr) non sarà la fine e avrà l’effetto di rafforzare la determinazione a lottare dei sostenitori di WikiLeaks e di chi difende la libertà di stampa”, dichiara al Fatto l’attuale direttore di WikiLeaks, il giornalista islandese Kristinn Hrafnsson.