la Repubblica, 17 giugno 2022
Intervista A Margaret Mazzantini
Da anni Margaret Mazzantini non concede interviste e da quasi un decennio non pubblica un romanzo. L’ultimo,Splendore, risale al 2013. I suoi libri hanno scalato le classifiche dei bestseller, sono diventati film, opere teatrali, hanno vinto numerosi premi letterari, compreso lo Strega per Non ti muovere,storia di un amore viscerale tra un chirurgo e una proletaria disagiata e regale. Questa volta però la scrittrice esce dal suo guscio per raccontarsi aRepubblicain occasione di un nuovo riconoscimento, il premio Hemingway. La incontriamo in un appartamento in una via ombrosa accanto a Villa Ada. Una stanza di arredi minimi, un divanetto, una libreria dall’aspetto provvisorio. «È lo studio di Sergio». Sarà il primo accenno a Sergio Castellitto che tornerà più volte nel corso dell’intervista: «Siamo profondamente uniti pur avendo caratteri molto diversi. Io sono un gatto selvatico, lui è più domestico».
Come funziona il suo processo creativo?
«I miei figli mi rimproverano perché fisso le persone. A muovermi è sempre la curiosità per le vite degli altri. Non parto mai da un concetto ma da un dettaglio: una calza sfilata, una mano posta in un certo modo.
Inseguo il desiderio di ritrovarmi davanti a uno stupore primitivo, qualcosa di cui ho nostalgia, una sorta di paradiso perduto. Lo scrittore è un rabdomante che cerca col bastoncino biforcuto la vena dell’acqua. Ma alla fine è un lavoro da artigiani, si suda».
Ripensa qualche volta ai suoi primi passi?
«All’inizioIl catino di zinco ha collezionato molti rifiuti. Fino a quando Cesare De Michelis decise di pubblicarlo per Marsilio. Mi suggerì di ammodernare i termini desueti per raggiungere più lettori, non lo feci e lui ne fu felice. Era un grande editore. Ripenso a lui, a Raffaele Crovi, a Giuseppe Pontiggia… personalità indelebili».
Perché non scrive più da tanto?
«Ho centinaia di pagine abbandonate. Ultimamente tendo alla resa. Scrivere richiede una grande resistenza, è uno scatenamento psichico, materia tellurica che non puoi dominare.
Devi starci sotto. Io poi detesto la parola dominio che è così in voga…».
Somiglia a un percorso psicoanalitico?
«Non sono mai andata in analisi.
Rilke diceva: non voglio perdere i miei demoni perché ho paura di perdere i miei angeli. La solita altalena tra esaltazione e prostrazione. Scrivi una pagina che ti sembra grandiosa, ti senti Balzac per una notte, e il mattino dopo vorresti sputarti in faccia».
Ha buttato molte cose?
«Ho cestinato molto più di quello che ho pubblicato. Sono stata poco furba, nonostante molti lo abbiano pensato. Il mio sito è fermo aSplendore, la mia biografia è piena di mancanze. Sono una sciagurata (sorride, ndr), mi interessa solo l’Opera. Quando lavoro mi dedico fino all’estremo, per il resto sono una perdigiorno. Non sono seriale, ogni libro è stato un evento unico, come per i figli».
Ora che cosa la blocca?
«Mi lascio saccheggiare quotidianamente dalle persone che amo. Ma ho un carattere scanzonato.Ho spalato tanto dolore e forse proprio per questo so cosa conta. Un raggio di sole, un cane che passa scodinzolando, un pasto buono, questo conta. Per scrivere bisogna avere la lavagna pulita. Non si può vedere il fondo dell’acqua se continui a turbare la superficie. Diciamo che mi sono lasciata turbare… ho avuto molti imprevisti e un lutto che mi ha prosciugato. Ma ci vuole pudore. Sia io che Sergio abbiamo un senso del dovere troppo radicato. Le famiglied’origine hanno pesato».
Sono state i vostri modelli?
«I miei genitori si incontrarono a Parigi, mia madre è irlandese, studiava arte alla Sorbona, mio padre era un intellettuale stravagante, primo campione italiano di judo.
Fecero una vita bohémien, tra Spagna, Marocco, Irlanda, prima di tornare in Italia perché mio padre voleva scrivere il libro “dalla parte sbagliata della Storia”. A cercar la bella morte,un romanzo bellissimo, alquale ha lavorato per quasi 40 anni.
Era un uomo potente in tutto, anche nella disperazione. Continuava a ripetere: mi pubblicheranno postumo».
Quella difficoltà paterna l’ha segnata?
«Pensavo che scrivere fosse il lavoro più disgraziato del mondo, succhiava la vita, seppelliva nella lava del rimpianto. Ma per me è stato diverso, più gioioso. Comunque non era solo mio padre, ma l’intera famiglia ad essere fuori dagli schemi, i miei zii, filosofi e pedagogisti, erano tutti piuttosto folli. Mia nonna era una grande affabulatrice, inventava neologismi, tra noi si parlava una lingua urticante e fantasiosa».
È lì che matura la sua vocazione letteraria?
«Anche dal teatro, che mi ha insegnato a vedere dove si posa il cono di luce: su quale utensile, su quale gesto, su quale sguardo. E dalla solitudine. Vivevamo isolati in campagna, i primi esperimenti di scrittura li ho fatti in un pollaio.
Flannery O’ Connor insegnava alle galline a camminare all’indietro.
Anch’io avevo una combriccola di pennuti che mi seguiva sotto ipnosi.
Le galline sono intelligentissime. Ho avuto la fortuna di crescere libera nella natura. Non avevamo soldi, e io e le mie sorelle lavoravamo nei campi come contadine, in una periferia direi quasi pre-industriale. È lì che nasce il personaggio di Italia».
La protagonista di “Non ti muovere” è esistita veramente?
«Per andare a Roma a frequentare l’Accademia d’Arte Drammatica prendevo un autobus carico di giovani lavoratrici proletarie, toste ed innocenti. Italia nasce dalla stanchezza e dal cuore coraggioso di quelle ragazze».
La capacità di osservare il dolore degli altri è anche al centro di “Venuto al mondo”, storia di un amore durante la guerra dei Balcani.
«Era appena nato Pietro, lo allattavo mentre quelle immagini terribili passavano in televisione. C’era un abisso tra la mia maternità e quelle file di orfani silenziosi che salivano sui pullman nella neve sporca. Ma il romanzo l’ho scritto dopo vent’anni.
Il dolore ammutolisce, ti rende pietra. Finita la guerra rimane un grande silenzio. È quello che mi spaventa di più. Il dopo. Ci vuole tempo perché si cancelli la memoria della violenza. Eppure ci ricaschiamo sempre, come scrive Tolstoj per far cessare la guerra bisognerebbe togliere il sangue dalle vene agli uomini e metterci l’acqua…».
Eppure non c’è storia che lei racconta in cui la disperazione non sia unita a un atto generativo.
«La ricerca della vita ci spinge sempre avanti in maniera inaspettata. Le donne di Sarajevo si mettevano il rossetto perché volevano essere belle nel mirino dello sniper. Anche in mezzo a tragedie immense cerchiamo una scia luminosa che ci restituisca speranza e dignità, e la voglia di incantarci ancora. Così il romanzo deve suscitare meraviglia, deve essere un viaggio avventuroso il più possibile lontano da noi stessi, per poi ricondurci stupiti esattamente al centro di noi stessi. Non so se i libri ci cambiano la vita, ma ci incitano ad essere più coraggiosi. La narrazione è la prima forma di studio morale, e in fondo penso che lo scopo della letteratura sia quello di renderci più umani».