il Giornale, 17 giugno 2022
Dom Pérignon, lo Champagne che visse due volte
Il tempo è forse il fattore più importante tra quelli che rendono il vino quello che è. Eppure esiste un arbitrio tutto umano che si incarica di rompere la clessidra: la decisione inevitabile di fermare a un certo la maturazione di un vino per iniziarne l’evoluzione, l’invecchiamento. Ciò accade nel momento in cui un vino viene «chiuso», etichettato, donato al mondo. Da quel momento inizia la sua vita sociale e in qualche modo il suo decadimento.
Ora immaginate invece che un vino possa vivere due volte. Che si possa metterlo al mondo e al contempo continuare a farlo crescere. In fondo è questo il progetto Plénitude, messo a punto da una delle più blasonate maison della Champagne, Don Pérignon, che per un’intuizione del precedente chef de cave Richard Geoffroy (che nel frattempo ha lasciato, mettendosi a fare un ci dicono incredibile saké) ha deciso di fotografare in due differenti momenti della sua vita lo stesso vino. Per ogni millesimato che esce sul mercato – e DP fa soltanto millesimati, e soltanto negli anni in cui le uve meritano un simile onore – una piccola quantità di bottiglie viene destinato a un più lungo affinamento e quindi messo da parte. Poi dopo almeno quindici anni (ma si può andare ben oltre), quando secondo lo chef de cave ha raggiunto la sua seconda pienezza (da cui la Plénitude), viene immesso di nuovo sul mercato sotto l’etichetta P2, come in una seconda giovinezza. Da quel momento è come se esistessero due alias in circolazione, due vini uguali eppure differenti, come se la stessa persona potesse andare in giro a venti e a cinquant’anni.
Assaggiare lo stesso millesimo di Dom Pérignon a due differenti livelli di evoluzione è in fondo una magia quasi straniante. Il vino è lo stesso ma le emozioni che i due calici trasmettono estremamente differenti. Me ne sono accorto qualche giorno fa a Épernay, nelle labirintiche e affascinanti cave della maison, dove lo chef de cave Vincent Chaperon – che ha sostituito Geoffroy il 1° gennaio del 2019 e ne segue con disciplina il magistero, lasciando al contempo che la sua sottile personalità pian piano prenda corpo – ci ha guidato al confronto tra lo stesso millesimo 2004 «fotografato» nel 2013, quando fu rilasciato nella sua prima versione dopo nove anni di affinamento, e fotografato oggi alla vigilia della seconda uscita, dopo diciotto anni di maturazione. Due grandi vini, non c’è che dire, con un Vintage che almeno nel mio giudizio non ha certamente sfigurato con il «fratello» più maturo, il P2, Ma ogni degustazione è una faccenda da scattisti, mentre poi la vita, si sa, è una maratona.
L’impressione è che comunque il 2004 rappresenti un’annata di svolta per il progetto Plénitude, perché l’annata 2004 sembra fatta apposta per esaltare la differenza tra le due differenti «pienezze». Il 2004 fu un’annata praticamente ideale, con stagioni tonde e fluide, un agosto piuttosto fresco a cui seguì un settembre caldo e secco che determinò il carattere del millesimato, rotondo, generoso, magnifico. E se il Vintage appare ancora in piena forma pur avendo molto camminato, il P2 ha visto l’alchimia dell’assemblaggio dispiegarsi ai suoi massimi livelli, in modo avvolgente e precisa. Un vino scolpito, come marmo levigato da migliaia di anni e di sguardi. Un luogo dell’anima, una centrale di energia. Chaperon ha scelto la danza come gesto simbolo di questo vino, una disciplina che «ripone il corpo al centro del nostro essere e ci invita a esplorare il percorso verso l’infinito».
Chi ha tempo non aspetti tempo ma lo conservi accanto a sé.