Il Messaggero, 17 giugno 2022
Intervista ad André Aciman
Io pensavo a mia madre e rivedevo i suoi vestiti/ Il più bello era nero coi fiori non ancora appassiti «Ripensare alla mia adolescenza a Roma, tra i 16 e i 17 anni, mi fa sempre pensare a I giardini di marzo di Battisti», dice André Aciman, autore di Chiamami col tuo nome, da cui è stato tratto il film premiato con l’Oscar di Luca Guadagnino, ora di nuovo in libreria con Idillio sulla High Line, tra Proust e Kent Haruf: un magico e coraggioso racconto d’amore tra due persone mature, un avvocato e una psicologa. «Ma ora – dice l’autore, che lunedì 20 sarà a Roma per l’anteprima del Festival Letterature (Casa delle Letterature, piazza dell’Orologio 3, ore 18) – sto scrivendo un racconto sul mio periodo romano, che è stato molto importante per me: mio padre non voleva lasciare l’Europa, io invece volevo andare negli Stati Uniti. In realtà, l’idea era di andarci e trovarmi male, per poter poi tornare in Italia. Ma le cose sono andate diversamente».
Perché?
«Non lo so. Dopo tanti anni sono cittadino americano, ma allo stesso tempo non lo sono, non ne sono davvero convinto».
Lei era a quel tempo, ricordiamo, un profugo proveniente dall’Egitto. Pensa a una vita che avrebbe potuto vivere ma non ha vissuto?
«Ovviamente sono sicuro che non avrei voluto viverla, però il rimpianto riaffiora sempre».
Forse per questo parla così bene l’italiano?
«Ma no, faccio errori continuamente, ho imparato la lingua più negli Stati Uniti che quando ero in Italia. Come vi ho già raccontato, sono molto affezionato anche al Messaggero, che leggevo ogni giorno dalla vetrina che dà su via del Tritone, perché non avevo i mezzi per comprarlo».
Può darci qualche dettaglio su questo libro che sta scrivendo?
«È un racconto basato sulla mia adolescenza romana, tra i 16 e 17 anni: la scuola, gli scontri con i parenti benestanti mentre io ero un profugo, potevo solo concedermi un libro da 400 lire alla settimana, un cinema con mia madre e mio fratello. Era il Trianon, ricordo. E poi la prima cotta per una ragazza, un’altra per un ragazzo, la guerra del Sinai del 67, il desiderio fortissimo di trasferirmi a Parigi, la necessità di accettare l’invito di mia zia, che ci voleva tutti a New York: io, mia madre, mio fratello, e persino mio padre».
Perché persino?
«Perché gli zii americani non lo amavano molto: sapevano che lui tradiva mia madre, e avrebbero desiderato che i miei si separassero in Italia, una volta per tutte. La vita a volte prende certe svolte...»
Dove viveva a Roma?
«In via Clelia, in un quartiere (zona Furio Camillo, ndr) che all’epoca era abbastanza tetro. Sono riuscito a convincere la famiglia che abita nello stesso appartamento in cui vivevamo noi, a ricevere me e mio figlio per rivedere quelle stanze cinquant’anni dopo: è stato quasi terapeutico, solo le scale sono rimaste le stesse, e si è dissolta tutta quell’aria opprimente che era rimasta nei miei ricordi».
Lei ritorna alla sua adolescenza, mentre Idillio sulla High Line è una storia d’amore tra due sessantenni.
«La gente mi chiedeva: perché scrivi sempre di una persona attempata e un’altra più giovane? Io temevo di scrivere di due anziani che finiscono per parlare dei nipotini... Ma poi ho raccolto la sfida, e ho provato a immaginare l’incontro tra due persone di una certa età. Vivono qualcosa che avrebbero potuto vivere prima, e se l’avessero fatto, forse le loro vite sarebbero state diverse».
Un po’ come in Sliding Doors?
«Esattamente. Ho scritto un saggio, Homo Irrealis, uscito l’anno scorso negli Usa: viviamo in un tempo che non è mai accaduto e che ci attraversa tutti, un mondo fatto di fantasie e di ricordi mai avuti».
Una volta ha detto che ama raccontare l’amore allo stato nascente, è ancora così?
«Sempre, sì, prima ancora che inizi: i miei protagonisti sanno benissimo che potrebbe non durare, ma vogliono vivere questa emozione, giorno dopo giorno. Hanno abbastanza esperienza per sapere cosa succede tra gli esseri umani, ma allo stesso tempo vogliono rischiare».
Meglio la possibilità di un amore che l’amore stesso?
«Una volta che il rapporto tra i due si sviluppa e forse durerà, mi chiedo sempre: cosa faranno la domenica pomeriggio? Faranno il bucato? Laveranno le stoviglie, piegheranno le lenzuola? Non mi pare una cosa interessante da raccontare».
Il suo libro è anche una dichiarazione d’amore all’Italia.
«Quando voglio scrivere qualcosa di piacevole affiora sempre l’Italia, e quasi mai la Francia, che sarebbe il mio paese di lingua madre».
A Roma il tema del Festival è Tempo nostro, un omaggio a Proust, di cui lei è un grande specialista. Il romanzo psicologico classico è sempre fonte d’ispirazione?
«Leggere Proust ti cambia, come essere umano e come scrittore. Non si può più fingere di non averlo letto e continuare a scrivere. Ma più che il racconto celebre delle madeleine, preferisco certi dettagli meno noti, che fanno parte dell’esperienza di vita di chiunque».