La Stampa, 16 giugno 2022
Chi non vuole scegliere tra lavoro e figli
Due espressioni, quando in Italia si parla di denatalità, tradiscono il vizio culturale che indebolisce la gran parte dei tentativi di affrontarla e risolverla. Queste le espressioni: non siamo un paese per madri; dobbiamo conciliare maternità e lavoro. Questo il vizio (facilmente deducibile): i figli sono onere materno. Un vizio che deriva da una struttura precisa e robusta, perfettamente coincidente con il nostro impianto sociale, patriarcale e familista. Niente di nuovo. Non valutiamo mai, però, come questa stortura sistemica possa anch’essa produrre ulteriori vizi, induzioni culturali, il primo dei quali è l’idea che fare figli non soltanto implichi una rinuncia ma, di fatto, sia una rinuncia. Per reazionario che possa sembrare, molte donne, pur volendone fare, sono sempre meno disposte a scegliere tra lavoro e famiglia: è il dato più interessante della ricerca su maternità e lavoro condotta da Freeda, il portale online rivolto alle nuove generazioni (Z e millennial: ventenni e trentenni) e che si occupa di temi femminili e femministi. Il 77 per cento delle intervistate (tutte donne tra i 25 e i 34 anni, per la gran parte lavoratrici e in coppia) crede che le madri siano costrette a scegliere tra far famiglia e far carriera e, soprattutto, il 40 per cento di loro non rinuncerebbe mai al lavoro dei sogni per fare la mamma. Siamo ancora il paese che legge, in quest’ultima non volontà, una forma di cinismo, uno spietato individualismo? In parte sì, e non per bigottismo, ma perché il sacrificio di sé è per noi una condicio sine qua non di molte cose: abbiamo imparato (ci è stato insegnato, o inculcato) che opporvisi significa ritenersi assoluti nel senso latino, e cioè sciolti da qualsiasi obbligo, qualsivoglia limite. Questa visione sacrificale della vita ha certamente a che fare con il cattolicesimo ma, per paradossale che possa sembrare, è anche uno degli esiti del combinato disposto di capitalismo e coazione all’ottimismo, al farcela: sacrìficati, e avrai tutto; sacrìficati, e vincerai su tutti, te stesso incluso. Ne La società della stanchezza, Byung-chul Han descrive il depresso del nostro tempo come colui che perde la lotta contro di sé, fallisce nell’adeguarsi all’imperio del “volere è potere”, e sperimenta così un distacco dagli altri e un rifiuto di sé insormontabile. Nel NO delle donne a scegliere tra lavoro e carriera esiste, invece, un rifiuto vitalistico: un no vivo e secco tanto al doversi sacrificare quanto al dover essere eccezionali wonder woman. E infatti questo no lo dicono donne che appartengono alla generazione delle “grandi dimissioni”, del lavoro che s’inventa e si fa sul divano, dell’ufficio da casa: tutte micro rivoluzioni per privilegiati, certo, che però dicono qualcosa della riduzione drastica della disposizione all’auto annullamento per nobili fini. Ricondurre le cose a una misura di semplice ordinarietà: lavorare senza morirne, fare famiglia senza annullarsi.
L’altro tratto dell’indagine di Freeda è la richiesta di un congedo parentale condiviso: il 66 per cento delle ragazze ritiene che quelli attualmente in vigore siano troppo brevi, penalizzanti e anche poco inclusivi (il 20 per cento di questo 66 per cento denuncia che le coppie LGBTQ+ con figli sono escluse da ogni forma di tutela della genitorialità); il 74 per cento crede che un congedo parentale paterno più lungo e ben retribuito contribuirebbe a una ripartizione equa della responsabilità famigliare. Il sociologo Domenico De Masi ha detto di recente a questo giornale che, visto che in Italia lavoriamo tutti più del dovuto (perché perdiamo molto tempo e perché siamo pervicacemente convinti che la qualità di un lavoratore sia direttamente proporzionale al tempo che trascorre alla scrivania), sarà molto difficile che gli uomini (i maschi) accettino, se mai la legge glielo consentirà, di assentarsi dall’ufficio per prendersi cura dei figli appena nati. Siamo certi che valga anche per i maschi ventenni e trentenni, le cui compagne, almeno in questa indagine, si dicono sicure di poter contare sul loro supporto?
Conosciamo davvero la generazione che si candida a costruire le famiglie del futuro?
È quasi del tutto assente, nelle rilevazioni di Freeda, quel “carico mentale” che le donne si sono sempre auto assegnato perché è stato sempre implicitamente assegnato loro (un libro di qualche anno fa lo raccontava perfettamente: Bastava chiedere di Emma, ed. Laterza): il peso delle gestione e della pianificazione domestica, tanto sul piano pratico quanto su quello emotivo e relazionale. Ed è quest’altra indisponibilità a quest’altro sacrificio che, anziché frantumare la famiglia, potrà forse finalmente rimodularla e porla sul piano su cui la legge del nuovo diritto di famiglia del ’75 (capite, del ’75!) la pose: la condivisione degli oneri. Andrea Scotti Calderini, ceo e co-fondatore di Freeda, ha detto: «La community di Freeda ci sembra molto preoccupata dal fatto che la maternità possa rappresentare un gradino rotto, un momento di svantaggio competitivo rispetto ai colleghi».
La maggior parte delle venti/trentenni consultate in questa indagine, ma pure in generale (lo sappiamo dai numeri), desidera fare figli ma teme il demansionamento e l’impoverimento. A dicembre del 2021, il 42 per cento di loro ha raccontato di essersi sentita chiedere, durante un colloquio, se intendesse diventare madre. È un numero piuttosto sconvolgente.
Ci sono infine le donne che figli non ne vogliono: come abbiamo tentato di raccontare su questo giornale, la maggior parte di loro non li vuole perché non li vuole (non li vuole il 31 per cento delle intervistate: il 61 per cento delle quali si dice felice così come sta, in solitaria produttiva non casta esistenza). Significa, quindi, che questo Paese può ancora contare su una generazione che desidera riprodursi, e che dimostra un nuovo, umanissimo eroismo: l’impermeabilità alla pessima qualità di chi amministra il suo futuro. Proporrei di non abusarne.