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 2022  giugno 16 Giovedì calendario

L’esercito ucraino non sa usare le armi inviate

Istruttori: la parola ha un suono rassicurante, asettico. Perfino se le unisci un altro sostantivo: guerra. Allude a una trasmissione di sapere, una collaborazione molto teorica seppure su una materia incendiaria, pericolosa. Invece proprio lì si nasconde il dettaglio diabolico, la discesa senza freni che alla fine conduce anche i più benintenzionati a tenersi fuori dai guai bellici, almeno quelli diretti, a imboccare la china che porta dritto al conflitto.La guerra in Ucraina e la necessità di aiutare gli aggrediti a non essere travolti, come era prevedibile, sale una tacca dopo l’altra. Perché ora Kiev invoca, ma forse sarebbe meglio dire esige visti i toni, oltre alle promesse artiglierie di grande gittata, capaci di fulminare le retrovie russe restituendo maceria su maceria, anche istruttori per far sì che entrino subito in azione sul campo di battaglia.Il guaio delle armi sofisticate è che richiedono tempo perché i serventi e gli ufficiali si addestrino all’uso. Il moderno omicidio industriale di massa richiede tecnologica sapienza. I cannoni che americani e inglesi hanno promesso arriveranno, ma gli artiglieri ucraini impiegheranno settimane per riuscire a impiegarli con l’efficacia bellica necessaria. Soldati ucraini si sa che si stanno addestrando in basi degli eserciti Nato. Ma ora Zelensky sembra chiedere un passaggio in più, istruttori americani e inglesi nelle immediate retrovia del fronte dove si acquatta l’artiglieria per rendere subito operative le armi.Mosca infatti seppure con i suoi tempi lenti da esercito zarista sta addentando campagne e città e sembra pronta a mettere sulle tabelle di tiro dei cannoni anche zone fuori dal Donbass.Possiamo misurare, alla vigilia della riunione della Nato di oggi, quanto terreno purtroppo è stato percorso quasi senza accorgercene nelle caratteristiche dell’aiuto difensivo all’Ucraina: dalle munizioni iniziali e dalle armi leggere siamo giunti all’artiglieria da campagna e agli istruttori. Si può riassumere meglio il salto evidente, si potrebbe dire antropologico, della nostra guerra?Un precedente dovrebbe far riflettere. Bisogna tornare agli Anni cinquanta, quelli della Guerra Fredda appunto. I personaggi bisogna cercarli nei libri di storia: Foster Dulles, Einsenhower, il vietnamita Diem. Gli americani avevano assistito al crollo dell’empire francese in Indocina, alla umiliazione occidentale di Dien Bien Phu quasi senza batter ciglio. Quella guerra aveva il marchio del tardo colonialismo, una parola che gli americani essendo una ex colonia detestano. A meno che non riescano a praticarlo in prima persona rivestendolo di concetti nuovi come destino manifesto, difesa della democrazia, i nostri interessi.Dulles era un discutibile personaggio che però racchiudeva in sé molti elementi che in politica estera gli americani dopo di lui hanno replicato impavidi: sicurezza incrollabile nella bontà della causa, nella buona fede, nella dignità, ovviamente la sua, e la convinzione che è sempre politicamente più opportuno per una grande potenza esser dentro piuttosto che fuori ai disordini del mondo. Avviò una delle maggiori tragedie americane quando riuscì a convincere un renitente Eisenhower che i vietnamiti al di sotto del diciassettesimo parallelo dovevano diventare un bastione dell’Occidente contro i comunisti e che non vedevano l’ora di essere arruolati nella crociata del mondo libero. La solita dose di arroganza, idealismo e ingenuità.Si cominciò con lo stralcio a favore di Saigon dei fondi destinati ad altri Paesi ma Dulles disse che i dollari erano utili ma non bastavano. Suggeriva una inezia: duecento consiglieri militari che avrebbero creato dal nulla un bell’esercito con belle uniformi e ufficiali carichi di medaglie fatti apposta per annientare a titolo proprio i comunisti. Così i leggendari «berretti verdi» sbarcarono con disinvoltura in Sud-Vietnam e la tragedia iniziò a compiere i suoi giri inesorabili avvitandosi su se stessa.Imprevedibile sviluppo? Per cortesia venne informato della decisione il leader del congresso Russel. Che reagì dicendo che era un errore colossale e quei duecento uomini sarebbero diventati rapidamente ventimila e forse un giorni duecentomila. Non era un profeta, solo un realista. Gli risposero che erano in fondo dei semplici consiglieri.I sudvietnamiti si rivelarono un disastro militare, alcuni consiglieri vennero uccisi, poco tempo dopo nel 1961 il nuovo presidente, Kennedy, già confessava affranto di fronte alla necessità di nuovi contingenti «non posso permettermi una sconfitta…».Forse è il momento di riflettere sulla nuova Nato balzata fuori dalle ceneri della invasione russa dell’Ucraina. Mettere in chiaro se il nuovo indirizzo strategico dell’Alleanza prevede la destabilizzazione della Russia, un gioco molto pericoloso che forse non tutti gli europei, silenziosi e obbedienti, vogliono giocare. Si parla apertamente ormai di estendere il contenimento dell’imperialismo russo (e cinese) al di là del Donbass, dell’Artico e degli Stretti, ad esempio scendere in campo in Africa dove Mosca ormai apertamente arruola regimi fino a ieri filo occidentali e sfrutta i rancori contro lo sfruttamento post coloniale e la disperazione per il caos portato dagli islamisti. Sempre più l’Alleanza sembra affondare nei meccanismi di una macchina del tempo, in mondi in cui pericolosamente la storia è vissuta come se fosse sempre contemporanea. Le pretese di Putin al rango di potenza globale che mette insieme le mire zariste e quelle sovietiche si specchiano nelle rabbie di un terzomondismo non più rivoluzionario ma in rivolta contro il ventre molle della globalizzazione e le sue bugie. La Nato è lo strumento più adatto per integrare tutte le infinite guerre di un mondo disperato e offeso, sulle cui «meravigliose prospettive economiche» hanno sbavato da un decennio sciagurati hegde found e analisti finanziari?