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 2022  giugno 16 Giovedì calendario

Biografia di Sylvia Plath

Il paesaggio della mia infanzia non fu la terra, bensì la fine della terra, le fredde, salate, fluenti colline dell’Atlantico. A volte, penso che l’immagine del mare sia la cosa più chiara e sicura che posseggo E in un flusso di ricordi, i colori si fanno più profondi e brillanti, il mondo di allora respira. Questi versi, e molti altri, sono dedicati da Sylvia Plath all’amato padre Otto, professore scomparso prematuramente quando lei ha otto anni.

L’OCEANO
Per la bambina è una ferita che non si rimarginerà più: continuerà a cercare il genitore nelle figure maschili. Doveristico, anche se abbastanza forte, è il legame con la madre, Aurelia, che la introduce alla poesia e sarà spesso destinataria delle sue lettere. E intensissimo è il rapporto con l’acqua e l’Oceano – la Plath parla di metafora centrale e si dice innamorata della meravigliosa informità del mare -, nonché con gli Stati Uniti.

SMITH COLLEGE
Sylvia nasce il 27 ottobre 1932 in una casa sul mare nei sobborghi di Boston, i suoi genitori sono immigrati tedeschi. Dopo di lei arriva il fratello, Warren. La bambina pubblica la prima poesia a otto anni. Ottiene una borsa di studio per lo Smith College nel 1950; tre anni dopo per la prima volta prova a suicidarsi e viene ricoverata in un ospedale psichiatrico. Conosce lì Ruth Beuscher, la psichiatra che continuerà a occuparsi di lei. Comunque, si laurea con lode nel 1955 e riceve la borsa di studio Fulbright per Cambridge, in Inghilterra, dove incontra il futuro Poeta laureato Ted Hughes nel febbraio 1956 e se ne innamora perdutamente. È bella, brillante, ma soffre di depressioni e alternanza di umore. Il male di vivere la corrode. Sposa Ted a Londra, poi torna un periodo negli Usa con lui. Aspira al rapporto perfetto, alla famiglia perfetta, il massimo in ogni cosa. A Boston, Sylvia frequenta corsi di creative writing del poeta confessionale Robert Lowell insieme alla poetessa Anne Sexton, poi passa un periodo nella colonia per artisti di Yaddo e comincia a scrivere in modo continuativo.

LA FIGLIA FRIEDA
Lei e Ted rientrano quindi in Inghilterra dove, il 1° aprile 1960, nasce la loro figlia Frieda. Due anni dopo arriverà il maschio, Nicholas, promesso a un tragico destino. La Plath pubblica The Colossus, una raccolta di poesie che si ispira ed è dedicata idealmente al marito, appunto il Colosso. In seguito, scrive il suo romanzo The Bell Jar, La campana di vetro, abbastanza autobiografico. Il rapporto matrimoniale si fa sempre più burrascoso, Ted la tradisce e lei è terribilmente gelosa. I due vivono in quel periodo nel Devon con i bambini, ma alla giovane l’esistenza monotona nella campagna inglese risulta intollerabile.

LA DISCIPLINA
Dominata, trascinata da quello che freudianamente si chiamerebbe Super-io, un dover-essere che non le lascia tregua, Sylvia vuole essere tutto, e tutto al meglio. Il personaggio della poetessa, l’artista, la figlia, la madre, la moglie si incrociano e rincorrono nel suo animo. Il mito della perfezione e dell’eccellenza, l’alternanza di stati di entusiasmo e di grave depressione, il bisogno di scrivere come unico modo per alleviare la sofferenza e sentirsi viva, l’incapacità di accettare vie di mezzo, la volontà di superare i propri limiti con la disciplina, l’idea di fondo che o si è tutto o non si è nulla – che riecheggia un po’ il celebre Aut Caesar aut nihil -, l’amicizia-competizione con Anne Sexton, l’attrazione per la morte, l’amore eccessivo per un marito che in qualche modo dovrebbe avvicinarsi al ricordo del padre e in effetti a volte la ispira e la sostiene, ma altre la maltratta e la picchia ( come viene raccontato nelle lettere): ogni cosa contribuisce a chiuderla in una spirale autodistruttiva.Lei nota: «La scena: una ragazza alla ricerca del padre morto – di un’autorità esterna che invece deve nascere da dentro». Furiosa per il tradimento del marito con Assia Wevill, Sylvia chiude il rapporto e si dedica alla scrittura. Oltre alle poesie redige racconti, un dramma teatrale e un diario, che in parte sarà distrutto dal marito. «Vivo come una spartana, scrivo in preda a una febbre e produco quello che per anni avevo chiuso a chiave dentro di me». Torna a Londra con i figli, in quello che è considerato l’inverno più freddo del secolo, ma il suo legame con l’esistenza è logoro.È la mattina dell’11 febbraio 1963, quando si consuma l’ultimo atto del dramma. Sylvia si sveglia alle 4 e 30 del mattino, entra nella cameretta dei bambini e apre la finestra. Dopodiché va in cucina e prepara la colazione: il pane con il burro e la marmellata, due tazze di latte, tutto ben apparecchiato. Quindi sigilla la porta con lo scotch, scrive un’ultima poesia, Orlo, e accende il forno a gas. Di fronte a cui si inginocchia e infila la testa.Ha solo trent’anni. A parere di alcuni, non avrebbe davvero voluto morire, bensì chiedere aiuto. In seguito, le sarà conferito un Pulitzer postumo per la raccolta Tutte le poesie. Nell’ultima aveva scritto: i suoi nudi piedi sembran dire: abbiamo tanto camminato, è finita.