Corriere della Sera, 14 giugno 2022
C’è un futuro per lo scriba
Già Keynes nel 1930 scriveva di disoccupazione tecnologica: l’innovazione avrebbe spinto fuori dal mercato alcuni lavori, per farne emergere altri, come era già accaduto con il petrolio e l’olio di balena del capitano Achab di Moby Dick , le lampadine di Thomas Edison e le candele, le automobili di Ford e le carrozze. L’economista di Cambridge, nel suo articolo intitolato Le prospettive economiche per i nostri nipoti, immaginava cosa sarebbe accaduto un secolo dopo, nel 2030. Ci siamo, quasi: siamo i pronipoti di Keynes. Le cavie del suo esperimento mentale.
Quali siano queste professioni del futuro – proprio come aveva anticipato Keynes – è oggi una delle domande chiave della nostra società a cui è molto difficile dare una risposta certa. Visto che stiamo progettando concretamente di andare a vivere sulla Luna e poi su Marte potremmo pensare che gli architetti spaziali come Valentina Sumini avranno un posto nel mercato futuro dell’occupazione. Anche la salute avrà un peso enorme: è facile immaginare che gli esperti di pandemie e di spillover, il salto di specie tra pipistrelli, pangolini e homo sapiens, torneranno sempre utili in questo secolo. Ma quanti potranno farlo? Quanti ne avranno la capacità e il talento?
La sostenibilità è un altro dei consigli da dare ai più giovani: diventerà sempre più rilevante nella complessa gravità della CO2 che zavorra la moderna società globalizzata.
Viviamo in un secolo lungo di scienza e tecnologia, questo è certo. Tuttavia tra i possibili lavori del futuro ce n’è anche uno discreto, insospettabile e potenzialmente accessibile a tutti: lo scriba. A duecento anni esatti dalla miracolosa comprensione dei geroglifici, una lingua rimasta sepolta per quasi due millenni, e della stele di Rosetta da parte di Jean-François Champollion, l’impoverimento semantico su cui sarebbe troppo facile dare un giudizio è un fatto, quali che ne siano le cause (i social network? Whatsapp? La sempre maggiore distanza dai libri e dalle fonti della cultura considerata troppo dogmatica solo perché verificata?). Molte aziende oggi sono alla ricerca di chi sa scrivere, come se fosse una merce rara, o una facoltà estinta nel fiume dell’evoluzione. Appassitasi la stagione degli acronimi inglesi e dell’anglicorum alla Wall Street, della devastazione della grammatica in cambio della velocità di comunicazione, quello che resta – tra un emoji e l’altro con cui abbiamo standardizzato e banalizzato anche la complessità delle emozioni a tutto svantaggio dei nostri figli – è una scarsa capacità di costruire periodi anche in una semplice email. I report sono ormai dei bullet points, gli eventi in stile Ted una serie di immagini rette da uno storytelling tribale, le call su Zoom un singhiozzo cerebrale. Come nel mito della caverna abbiamo iniziato a scambiare le ombre monocromatiche per la realtà delle immagini: giochiamo ogni giorno con i format del linguaggio pensando che possano compensare una cecità nella tavolozza grammaticale e logica. Potremmo anche scovare in questo decadimento atomico della scrittura i segreti dell’ascesa del populismo, se non fosse un tema molto più complesso.
In questo mondo post-scrittura che nemmeno i migliori sceneggiatori di fantascienza erano riusciti a prevedere (anche in Blade Runner di Ridley Scott Harrison Ford sfogliava un giornale), chi conosce ancora l’arte della divulgazione e i misteri della sintassi ritorna ad essere come uno degli scriba dell’antico Egitto, silenzioso ma potente. È sempre così: il futuro è un distillato tra un imprevedibile piega degli eventi e un insospettabile riemergere di ciò che qualcuno aveva già scritto.
Post scriptum: Keynes aveva immaginato che la tecnologia ci avrebbe affrancati dal lavoro, permettendoci di occuparci solo di filosofia. Per ora la tecnologia sembra volerci affrancare dal tempo libero.