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 2022  giugno 14 Martedì calendario

Marco Tardelli: «Bearzot dimenticato»

Conosceva il nome del pittore norvegese, ma non il quadro: quella testa tra le mani, quella disperazione, quella bellezza dell’orrore. Quarant’anni fa al Mundial quando Marco Tardelli scese in campo per la prima partita non avrebbe mai pensato di diventarne poi il simbolo in finale. E ancora gli fa impressione: angoscia, smarrimento, male di vivere. Quando mai? Non quell’11 luglio, non con quel gol di sinistro in scivolata alla Germania.
L’Urlo l’aveva mai visto?
«No, mai visto il quadro. Non al museo, ma sapevo che Edvard Munch era un pittore. Non mi dà fastidio essere associato a lui, ma il mio stato d’animo al Bernabeu non era quello: nessuna agonia o sofferenza, ma l’urlo di un traguardo raggiunto con sacrifico, contro tutti.
E sì, ho corso come un pazzo.
Pensavo ai miei: gliel’ho fatta vedere, mi dicevo, loro che non volevano giocassi a pallone, ecco, vedete, ho vinto, ce l’ho fatta, guardami papà che ti svegliavi alle sei per andare a lavorare, che hai buttato via la mia prima maglia, tanto poco ti importava, e anche tu mamma che mi preferivi sapiente a scuola. Era il mio fantastico riscatto. Guardatemi tutti voi, convinti non avessi il fisico».
Nemmeno un po’ di nausea per quell’urlo infinito?
«No, ne sono orgoglioso, non mi ha mai stancato o reso prigioniero. Durò sette secondi allora, il tempo di 175 fotogrammi, e dura ancora. Si è come congelato. Resta la mia pagina più bella, ha cancellato ogni prima e ogni dopo, appartiene ad un’altra epoca, ma è nella mia vita, anche se l’ha fatta sparire. È nella storia, per i miei figli e nipoti. Mi avrebbe dato più fastidio non averlo fatto».
La chiamavano Schizzo.
«Vero. Sono stato un giocatore insonne, uno agitato, l’unico ad avere una stanza solo per sé. Strano perché in famiglia nessuno aveva problemi di quel tipo. Forse era perché già da ragazzo avevo l’abitudine di bere caffè e latte prima di andare a letto, i miei non erano nutrizionisti, così ai Mondiali dell’82 ho passato le notti in piedi, bussavo alle porte degli altri, volevo chiacchierare, ma l’ultima notte Zoff e Scirea si chiusero dentro, non mi fecero entrare. Dormivano, beati. Io mi ero portato la mia scorta di libri: i romanzi di Morris West e tanto Gabriel Garcia Marquez, che mi piaceva e mi faceva stare bene».
Urlò in finale, ma anche prima.
«Non ero imbavagliato, dicevo la mia. Allora con i giornalisti si parlava nello spogliatoio e fuori, si discuteva, silitigava, si faceva pace, e poi si ricominciava. Il calcio non era un prodotto tutelato, nessuno di noi aveva uno staff personale o un addetto stampa. Oggi l’informazione ha una sola regia, niente è spontaneo, tutto è studiato e controllato.
Nessuno si permetterebbe alla partenza di un’avventura di offendere o di andare giù pesante con squadra e giocatori. Allora capitò. Come fai a stare zitto quando il tuo presidente federale dice che torneremo presto a casa e quando quello della Lega dichiara che non vede l’ora di prenderci a calci nel sedere? Altri tempi»
Quelli dove il ct Bearzotschiaffeggiò una tifosa che gli aveva dato dello scimmione per aver escluso Beccalossi.
«Una sberla educativa. Per insegnare il rispetto, anche la ragazza capì.
Improponibile oggi con le nuove sensibilità e con i social tempestosi.
Bearzot era una persona perbene, potevi criticarlo, non offenderlo.
Quando litigò con un giornalista era perché riteneva che da ospite in un ritiro, in casa di altri, hai il dovere di essere educato. E quando dissero che Cabrini e Rossi dormivano insieme, noi ci ridevamo, ma lui si rabbuiò. Si chiedeva: non pensano ai parenti e ai figli rimasti a casa? Su certi temi aveva una sua morale, impazziva setoccavano la famiglia».
Avevate al seguito grandi scrittori come Brera, Arpino, Soldati, Del Buono, Bene: voi però li avete lasciati senza parole.
«Strano e assurdo a pensarci oggi.
Così tanti maestri e noi in silenzio-stampa. Io ancora mi rimprovero di avere insultato Brera.
Scriveva che avevo le gomme sgonfie. Lo vidi entrare nel bar del ritiro a Pontevedra, mi alzai dicendo ad alta voce: «Vado via, sento puzza di merda». Non dovevo, ho sbagliato, non ho mai avuto modo di scusarmi.
Mi resta il rimpianto, non mi assolvo.
Anche dopo il gol alla Germania mi sono fatto il segno della croce, era mia abitudine chiedere perdono per quello che mi usciva dalla bocca».
Più iconico il vostro successo al Mundial 1982 o quello del 2006?
«Meritati tutti e due, non è una gara a chi è stato più bravo. Ma se si parla di icone dico quello dell’82. Non solo perché battemmo l’Argentina di Maradona, il Brasile di Zico, la Germania di Rummenigge, ma per quello che successe nelle piazze. La gente tornò a manifestare insieme per qualcosa e non contro qualcuno, sventolare il tricolore non era più fascista, ma significava riconoscersi in una biografia collettiva, dopo il terrorismo e le crisi, e al di là della retorica, si poteva tornare a credere in noi stessi. Ma questo lo capimmo quando tornammo in Italia sull’aereo di Pertini, appena atterrati. E ci servì per chiedere alla Juve un adeguamento di stipendio: perché gli stranieri che arrivavano, Platini e Boniek, dovevano prendere più di noi campioni?».
Lì a Madrid nessuna avvisaglia?
«Macché. La sera del trionfo l’ho passata nel corridoio dell’albergo a parlare con Scirea, Rossi e Cabrini. La prima notte di quiete dopo tante tempeste. E ora ci chiedevamo, che si fa? È vero che dopo un grande pieno avverti un profondo vuoto. Non potevamo immaginare il chiasso che stava montando in Italia. E nemmeno che da eroi ci saremmo trasformati in delinquenti, anzi in evasori fiscali.
Nell’86 ero in vacanza con Zoff a Punta Ala quando mi arriva la convocazione giudiziaria davanti a un magistrato a Milano. Rispondo: tra due giorni finisco le vacanze, potete aspettare? No, deve andare subito è la risposta. Il magistrato mi aspetta con le parole: confessi, Zoff ha già parlato. Ma confessare cosa? Ci ritirarono anche i passaporti, a tutti i 22 giocatori, come se fossimo pronti ad evadere all’estero. Eravamo sotto accusa per il premio ricevuto dallosponsor nel viaggio di ritorno e rinviati a giudizio anche per non aver denunciato i soldi incassati nella dichiarazione dei redditi presentata nell’83. Fummo prosciolti con formula piena nell’89. Questo non è cambiato: se un manager guadagna milioni è perché li merita, i soldi degli sportivi invece sembrano sempre ingiusti e esagerati».
“Dura solo un attimo, la gloria”, è il titolo dell’autobiografia di Zoff.
«Sì. Spesso ti oscurano da vivo e si sbarazzano di te da morto. Lo dico per Bearzot che meriterebbe oggi un grande ricordo, invece è trascurato.
Parlano più di noi che di lui. Non è giusto. Lui se credeva in qualcosa buttava giù i muri a testate. I documentari sportivi non mancano, su Bearzot però c’è poco. Ci ha fatto vincere un titolo che mancava dal ’38 e avere un successo che ci sfuggiva da 14 anni, dall’Europeo del ’68»
Lei ha avuto parole molto toccanti per Paolo Rossi: si è portato via la vostra invulnerabilità?
«No, anche se lui era del ’56 e io del ’54, e quando muore il più giovane certi pensieri li fai. Ma a farmi più male di quando Platini mi ha chiamato alle sei di mattina per darmi la notizia è che Paolo ci ha nascosto la sua malattia, il dolore èstato quello di non averlo potuto aiutare. Scirea se n’è andato in un incidente improvviso, Paolo no, non dico che ne dovesse parlare nella nostra chat mundial, ma avrei voluto fare qualcosa. Lui era così, gentile e sfuggente, era sempre sulla sua nuvolina, sorrideva, ma con la testa era lontano. Il calcio non lo interessava più, nemmeno fare ilcommentatore, preferiva il mestiere di imprenditore».
In quale club le piacerebbe giocare oggi?
«In Italia nel Milan perché è stato capace con Maldini di fare un lavoro di squadra, all’estero nel Real per lo stesso motivo. Quando Butragueño mi ha portato a vedere il loro museo ho respirato la storia di un collettivo».
Dopo 40 anni cosa vorrebbe?
«Che quel successo servisse non a fare melassa, ma a capire che lo sport con le sue emozioni può raccontare l’identità e le speranze di una nazione. Perché a scuola non si studia la storia dello sport? Sarebbe un romanzo interessante, che ci appartiene, difficoltà comprese. A Belfast hanno titolato l’aeroporto a George Best, grandissimo, anche senza titolo mondiale. Da noi, per i nostri campioni niente, a Fiumicino nemmeno una foto. Chiedo: perché all’esame di maturità non dare un tema sul significato di quel successo ’82? Sarebbe un modo per far riflettere: lo sport cambia tanti risultati, non solo quello della partita. Se io sono l’Urlo di Munch che evade dal quadro, anche la Nazionale dell’82 è uscita dal campo per farsi speranza di un Paese diverso. Noi grazie a Bearzot ce l’abbiamo messa tutta».