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 2022  giugno 13 Lunedì calendario

I 99 anni dell’esame di maturità

Sta per compiere un secolo e i suoi 100 anni cominciano a pesare. Nel corso del tempo ha avuto alcuni, anzi parecchi (forse fin troppi e talvolta inutili) ritocchini, anche se mai, in anni recenti, una vera trasformazione di fondo. Solo l’emergenza Covid, nello scossone dato a tutto il mondo della scuola, ha colpito anche l’esame di Maturità, o, come si chiama ufficialmente, l’esame di Stato.
Qualcuno sperava che fosse anche il colpo di grazia per abolirlo o almeno rinnovarlo totalmente. Che la necessità ci sia, su questo sono tutti concordi. Introdotto dalla Riforma Gentile nel 1923, era un esame pensato per selezionare la classe dirigente (il primo anno i promossi sono stati il 25%, due anni dopo il 60% al Classico e il 55% allo Scientifico), oggi dovrebbe invece certificare le competenze raggiunte. Non valutare, quindi, quello che lo studente sa, ma cosa sa fare con le informazione che ha acquisito. Il condizionale è d’obbligo perché è ormai evidente che non sempre ci riesce. Lo sospettano da tempo le università che invece di affidarsi ai 100, magari anche con lode, certificati dalla maturità, preferiscono somministrare i propri test. Ma lo dimostrano, adesso, i dati di una ricerca pubblicata dalla Fondazione Agnelli e realizzata da Patrizia Falzetti e Angela Martini che compara i risultati Invalsi dei ragazzi del quinto anno e gli esiti della maturità dello stesso anno, il 2019, l’unico valutabile, quello prima del Covid.
In Puglia e in Calabria, tanto per fare gli esempi più eclatanti, ci sono più del quadruplo dei 100 e lode rispetto alla Lombardia. Il 9,2% dei diplomati in Calabria esce con 100, la percentuale più alta in Italia, seguita da Puglia, Campania e Sicilia. Fanalino di coda è la Lombardia con una differenza enorme: meno della metà, solo il 3,6% raggiunte il voto massimo. Penultimo il Piemonte.
Ma il confronto con le prove Invalsi indica che chi è uscito con un voto tra 96 e 100 nelle regioni del Sud, avrebbe oscillato tra un 76 e un 80 se fosse stato giudicato nelle regioni a Nord. Forbice ancora più evidente sui voti più bassi. Poi c’è un altro aspetto legato al rito, alla cinematografica notte prima degli esami, da cantare, da patire, da passarci attraverso... Basti pensare che da ben 25 anni non si chiama neanche più Esame di Maturità ma Esame di Stato.
ANTISTORICO O SEMPRE ATTUALE?
Quindi: l’esame resta, ancora oggi, un momento di passaggio fondamentale o è una prova ormai vecchia? E, in ogni caso, come renderlo più attuale, ma soprattutto più utile visto che, tra l’altro, ha un costo che si aggira sui 200 milioni di euro l’anno? «La maturità così com’è oggi non ha più senso», risponde senza esitazione Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. È antistorico, secondo lui, e imbrigliato in un grosso equivoco. «Originariamente serviva a certificare un livello di conoscenze attraverso una commissione esterna che verificava quanto gli studenti avessero imparato. Oggi non è più così e soprattutto è venuto meno il valore e il segnale che la maturità poteva dare nei confronti delle università e del mondo del lavoro». Anche perché «sappiamo che ci sono delle differenze legate alle valutazioni delle commissioni. Un 100 da una parte non è uguale a un 100 dall’altra. E non si tratta solo delle differenze tra Nord e Sud, ma anche fra una commissione e l’altra. Ma è previsto dalla Costituzione e abolirlo non è semplice». Gavosto sperava che grazie al Covid si arrivasse a superarlo. «Forse era il momento di ripensarlo ma non mi sembra siamo andati in quella direzione». Non la pensa tanto diversamente Antonello Giannelli, presidente dell’Associazione nazionale presidi. «Dal punto di vista dell’aspetto valutativo è superato. Non fa altro che confermare quello che la scuola ha già valutato da anni e infatti abbiamo percentuali di superamento quasi del cento per cento, peraltro con votazioni in linea con quelle conseguite durante il percorso scolastico. Non serve a nulla ed è quasi superfluo». Con un «ma», a suo parere. «L’esame ha un valore antropologico, è un momento di crescita che gli studenti vivono come un rito di passaggio». Quindi, imprescindibile.
«Sono molto critico sulla maturità come rito di passaggio – dubita Gavosto – Siamo stati rovinati dai film, ma no, non lo è. Nel periodo Covid, Paolo Giordano che ha un dottorato in fisica, aveva sottolineato che la maturità è importante perché è il primo momento in cui gli studenti vengono presi sul serio. Se così fosse sarebbe grave... per cinque anni sono stati visti come ripetitori automatici delle lezioni. Il mondo è cambiato, i ragazzi sono diversi. Non funziona più quella scuola che all’epoca funzionava, tra l’altro, solo per pochi eletti». L’esame oggi è, o almeno dovrebbe, certificare che tipo di competenze ha sviluppato lo studente e che livello ha raggiunto. «Lasciamo quindi perdere – continua Gavosto – tutta la retorica da notte prima degli esami. È una certificazione che ha bisogno di meno arbitrarietà della commissione d’esami. Basta vedere che nel confronto tra Invalsi e voto di maturità, negli orali siamo più distanti dal test Invalsi, che è ovviamente più oggettivo. Bisogna aspirare ad avere più prove fatte non da propri professori e uguali per tutti gli studenti».
A togliere l’aurea che ha accompagnato generazioni di maturandi, ci sta anche Silvia Tatti, docente di Letteratura alla Sapienza di Roma, presidente della sezione didattica dell’Associazione degli Italianisti che si occupa dei rapporti tra università e scuola. E la motivazione è chiara. «Rito? Direi di no. Adesso la scuola non è più così centrale nell’esperienza degli studenti. Non solo perché è cambiata la società ma perché la società stessa ha depotenziato la centralità della scuola». Con tutti i problemi che comporta. Ma questo è un altro discorso.
IL RITORNO DEGLI SCRITTI.
Sul ritorno degli scritti, dopo due anni di stop per il Covid, si è scatenata una battaglia alla tipica maniera italiana con schieramenti senza sfumature. Tra l’altro, la prima prova quella di italiano, era stata rivista e corretta proprio l’anno prima della pandemia, nel 2019. La commissione presieduta dal professor Luca Serianni ha cambiato totalmente l’impostazione. Il principio? Deve servire a valutare come lo studente sa argomentare, non più se ha delle conoscenze. Quindi niente tema libero (che è pure una contraddizione in termini...) ma un testo da capire e su cui, poi, ragionare. «Non tutti domani faranno d’altronde gli scrittori – fa notare Gavosto – ma al 99 per cento sarà invece richiesto di dimostrare di avere capito un testo o saper fare un riassunto. E per tutta la vita». La strada è stata avviata proprio dalla commissione presieduta da Serianni. «La riforma, attuata solo per un anno, ha rinnovato completamente la struttura dell’esame – spiega Silvia Tatti, che ha fatto parte della commissione -. Punta non più a valutare le conoscenze acquisite, ma la capacità di organizzare un testo scritto, di decodificarlo, di comprenderlo, e articolare un discorso, tutti aspetti utili non solo per proseguire gli studi ma per sempre». Fondamentale che la prova sia uguale per tutti, «è una garanzia di democrazia, un modo – chiarisce – per far convergere verso obiettivi simili studenti di tutti gli ordini di scuole. E questo è uno dei motivi per cui l’esame di maturità deve rimanere». Magari smettendo di chiamarlo di Maturità. «Non è un esame in cui dobbiamo sottoporre gli studenti a una valutazione di tipo nozionistico, perché questa è già stata compiuta prima», precisa Giannelli. Per Gavosto bisogna adattare l’esame al percorso e non tanto viceversa, perché «la nostra scuola è già sulla carta una scuola delle competenze mentre è l’esame disallineato, restando quello di un secolo prima».
Ma un esame che valuti la capacità di ragionamento deve avere alla spalle una scuola che insegni e valorizzi questa capacità. «Il modo di insegnare e di studiare tende a essere molto tradizionale – commenta Gavosto – con un approccio prevalentemente mnemonico e di ripetizione della lezione sentita in classe, mentre oggi più che mai sarebbe utile imparare a fare collegamenti». Tra concetti, tra materie. Il passaggio (obbligato) è verso quella che Giannelli chiama «la didattica della motivazione». «Dobbiamo riuscire a convincere gli studenti del fatto che studiare è importante per loro. Invece la nostra scuola è impostata su una logica più selettiva, anche se solo sulla carta. Se non studi non ti promuovo oppure ti metto un’insufficienza. E questo ha effetti traumatici sullo sviluppo della personalità di tanti ragazzi che infatti abbandonano». Risultato: una dispersione sia esplicita che implicita molto elevata. Un esame «serio», oggi, non ha niente dell’esame «serio» di ieri, perché come ben sintetizza il direttore della Fondazione Agnelli «non sono più quelle le competenze che i ragazzi devono sviluppare». Non una scuola per pochi eletti, «la sua funzione è fare in modo che tutti siano acculturati – insiste Giannelli -. Avere una nazione con un livello di competenze elevate è interesse di tutti, perché a questo corrisponde un maggior Pil». Questo non significa una scuola in cui non si studia nulla, secondo la frequente accusa dei nostalgici, ma «in cui si studi molto di più di adesso, ma su una spinta motivazionale condivisa da ciascun alunno». Una maturità conquistata per l’intero Paese.



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«L’esame? Certo che serve ancora e, fra l’altro, per eliminarlo bisognerebbe modificare la Costituzione, quindi il procedimento è abbastanza oneroso». Luca Serianni, linguista, professore emerito dell’Università Sapienza di Roma, ha presieduto la commissione che, nel 2019, ha riformato la prova di italiano della Maturità.
Dopo il debutto, lo stop di due anni ma quest’anno lo scritto di italiano torna e torna nella sua veste rinnovata.
«Diciamo che l’esame attuale vede in me il suo responsabile... ma vorrei partire da un dato, i risultati del concorso per magistrato ordinario. Uno dei componenti della commissione, Luca Poniz, ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati, dice che ha superato la prova solo il 5,7%, pochissimi, perché ci sono stati - cito - strafalcioni di diritto ma anche di italiano. Il suo intervento ha due punti forti».
Quali?
«Il primo è che bisogna sapere maneggiare la lingua, non fare errori di ortografia e di grammatica. Il secondo è che proprio il linguaggio del diritto è particolarmente sensibile ai meccanismi dell’argomentazione. E la tipologia B della prima prova, insiste proprio su questo. Verifica quanto gli studenti abbiano appreso e sappiano fare con la propria lingua. Oggi è importante saper collegare dati diversi, possibilmente facendo relazioni tra ambiti concettuali differenti, tra letteratura e scienza e da questo insieme di dati ricavare un discorso coerente».
Secondo argomento?
«L’esame della maturità, continuiamo a chiamarlo così per comodità, è un rito di passaggio e come ci insegna l’antropologia, questo ha un significato. Bene o male lo studente chiude il suo percorso scolastico che è durato ben 13 anni e passa a qualcosa di diverso».
Non è antistorico oggi?
«Ha un valore simbolico. Da un punto di vista psicologico ed emozionale, mettendoci nei panni degli studenti, il significato continua a esserci. Che poi non serva discriminare è vero, ma è anche inevitabile. E infatti il Governo ha stabilito, secondo me abbastanza saggiamente, una quota molto alta del punteggio, ben 50 punti su 100, ai cosiddetti crediti, alle attività cioè che gli studenti hanno svolto negli anni. Quindi è molto difficile - vogliamo dire impossibile? - essere bocciati».
Lei ha coordinato la commissione per riformulare le prove di italiano dell’esame. Quali sono i punti su cui avevate puntato?
«Innanzitutto la capacità di comprendere un testo e di argomentare, poi l’attenzione al dato linguistico. Abbiamo menzionato espressamente la punteggiatura e la necessità di valorizzare i giudizi personali. D’altronde molti ragazzi che usciranno dalla scuola avranno ben poche occasioni nel corso della loro vita di scrivere. Ma tutti hanno necessità di saper comprendere quello che viene loro proposto».
Allenare a comprendere e argomentare. In che modo?
«Per esempio il diritto, si studia solo in un particolare tipo di istituto tecnico. Però, se si prende un testo di diritto scritto per un pubblico di 15enni, occorre che lo studente di liceo scientifico o artistico sia pienamente in grado di capirlo. E se non lo capisce è chiaro che c’è qualcosa che non funziona perché è un testo rivolto a quell’orizzonte di età e di esperienza. Magari si potrebbe prevedere un’ora in più di lezione solo per abituare all’argomentazione».
Quali sono gli errori macroscopici di italiano?
«Soprattutto non seguire una certa coerenza, con discorsi che non hanno uno svolgimento logico, senza capo né coda, con frasi che servono per riempire un po’ lo spazio. Questo è da evitare disciplinandosi soprattutto con una serie di esercizi specifici».
Per esempio?
«Si parta dall’esame di un bell’editoriale come modello. Con l’aiuto dell’insegnante si cerca il punto di vista specifico dell’opinionista. Poi, su un articolo diverso, si dà il compito a casa. Domande sulla comprensione dei singoli passaggi, test a risposta multipla e il riassunto. Come terza fase, si chiede di scrivere qualcosa di simile su un altro testo».
Spesso i dati delle Invalsi non sono allineati con i voti di maturità.
«È un problema reale. Si potrebbe dare un valore di giudizio ai test Invalsi, anche se susciterebbe parecchie reazioni... Ma attribuire un punteggio nei 100 punti finali anche ai test Invalsi del 4° anno, riequilibrerebbe certe situazioni».