La Stampa, 13 giugno 2022
Per salvare il referendum bisogna rivedere il quorum
La crisi del referendum è irreversibile e se i partiti vogliono salvare questo strumento «prezioso» hanno una sola possibilità: rivedere il meccanismo del quorum. Mario Segni nei primi anni ‘90 promosse e vinse i referendum che cambiarono il sistema elettorale da proporzionale in maggioritario. Nel ‘99, poi, mancò per un soffio il quorum sul quesito che avrebbe abolito la residua quota proporzionale. Oggi non si stupisce del risultato.
Anche stavolta niente quorum, dal ‘95 a oggi dei referendum hanno superato la soglia solo nel 2009 e nel 2011. Hanno sbagliato i promotori a proporre quesiti così tecnici?
«Certamente i quesiti erano ostici, ma la campagna è stata fiacchissima, oscurata anche da un evento drammatico come la guerra in Ucraina. Detto questo, bisogna avere il coraggio di ammettere che un altro tassello del nostro sistema costituzionale è saltato, credo definitivamente. Se non si riforma il quorum, lo strumento referendario è praticamente morto. Lo dimostra il fatto che l’affluenza per il referendum è stata bassa anche nei comuni dove si votava per il sindaco, mentre il voto per le amministrative ha tenuto. È proprio il referendum che non ha attratto».
Il quorum va abolito?
«Il quorum ormai è impossibile da raggiungere, con un’affluenza che anche alle elezioni è calata del 30-40% rispetto al ’48. È un altro tassello di un grande castello costituzionale che è invecchiato. Se la classe politica vuole salvare il referendum deve abbassare il quorum. Il movimento referendario aveva proposto una soluzione studiata dal professor Barbera: fissare il quorum alla metà della partecipazione alle ultime elezioni politiche (anziché al 50% degli aventi diritto come è ora, ndr). Io credo che il referendum sia un istituto importantissimo per la democrazia, ha permesso di decidere temi come il divorzio e la legge elettorale».
Appunto, forse sarebbe il caso di riservare il referendum a grandi scelte di fondo. Non crede?
«Non c’è dubbio. Grandi scelte di fondo e scelte chiare. La giustizia, che è un grande tema, purtroppo non interessa molto ai cittadini».
Per riformare la giustizia basta la riforma Cartabia?
«No, la riforma Cartabia non ha toccato – e non può toccare – il tema del fallimento del principio costituzionale dell’autogoverno della magistratura, che ha capitolato. La vera riforma sarebbe la modifica del Csm, che si è dimostrato incapace di governare un settore così complicato. E per questo serve una legge costituzionale. Con il Parlamento attuale non era possibile. Il governo non poteva fare di più».
Quindi bisogna riformare la Costituzione anche per risolvere i problemi della giustizia. È così?
«E non solo! Attenzione: c’è un elemento che travalica tutti i discorsi fatti finora. Siamo entrati – e non esito a dirlo – in una nuova epoca storica con l’invasione dell’Ucraina, si ridisegna il sistema internazionale. La sfida di Putin è alle democrazie occidentali. Una grande riforma costituzionale deve partire da questo presupposto: dobbiamo chiarire prima di tutto se stiamo con l’Occidente o con Putin». —