Specchio, 12 giugno 2022
Intervista a Jean Todt
Jean Todt è un dirigente delle corse automobilistiche francese ed ex copilota di rally. È stato direttore di Peugeot Talbot Sport e poi il Team Principal della Scuderia Ferrari Formula 1, prima di venire nominato amministratore delegato di Maranello dal 2004 al 2008. Dal 2009 al 2021 è stato il nono presidente della Fédération Internationale de l’Automobile (FIA). Il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon ha nominato Todt nel 2015 come inviato speciale delle Nazioni Unite per la sicurezza sulle strade, incarico riconfermato da António Guterres nel 2018.
Lei è figlio di un medico. Perché ha deciso di diventare copilota di rally?
«Mio padre è arrivato in Francia dalla Polonia intorno al 1930 per studiare medicina. Io sono nato a Pierrefort, un villaggio nella campagna del centro della Francia, e fin da bambino ero affascinato dalle automobili e dalle corse. Sognavo di diventare un famoso pilota, e iniziare come copilota di rally era il modo più facile per avvicinarsi a questo sogno senza avere grossi sostegni finanziari. Presto decisi di non mettermi alla guida personalmente, ma la carriera di copilota fu un’occasione unica per imparare, con la speranza di diventare un giorno responsabile delle corse. Accadde nel 1981, quando il presidente della Peugeot Jean Boillot mi affidò il compito di creare il reparto rally della casa».
Perché ha smesso di fare il copilota, doveva essere un mestiere affascinante?
«La vita è fatta di capitoli diversi. A 35 anni avevo concluso la fase in cui sedevo accanto a qualcuno, a organizzare e a leggere appunti, anche se lo facevo per i migliori guidatori e team dell’epoca. Sono molto francese e non mi sarei mai aspettato proposte da case di Paesi diversi».
Dopo 12 anni di successi alla Peugeot è passato alla Ferrari. Chi l’aveva chiamata?
«Avevo conosciuto Bernie Ecclestone, che all’epoca gestiva i diritti commerciali della Formula Uno. Ovviamente avevo contatti in tutte le scuderie, e la Ferrari era sempre stata la più importante, ma purtroppo in quel momento non aveva molto successo. Per la salute della Formula Uno ci vuole una Ferrari di successo, e Bernie Ecclestone fece il mio nome all’avvocato Agnelli, a Cesare Romiti e a Luca di Montezemolo, appena diventato presidente della Ferrari. Mi convocò nella sua casa di Bologna nell’agosto ‘92, per un incontro confidenziale, e abbiamo discusso per altri sei mesi prima della mia nomina a capo della Scuderia Ferrari di Maranello».
Ha conseguito subito i suoi grandi successi, la riorganizzazione del team e l’arrivo di Michael Schumacher?
«Non fu né semplice, né rapido. Arrivai alla Ferrari il primo luglio ‘93, quando non vinceva il campionato dei piloti dal ’79, con il sudafricano Jody Scheckter, e quello dei costruttori dal 1983. Ero il primo non italiano a guidare un team italiano leggendario. C’erano molte aspettative, e spesso pensavo che non saremmo riusciti a fare progressi».
Era un problema dell’auto o dei piloti?
«Per avere successo, c’è bisogno di una grande squadra e di una grande auto, e allora si può chiamare un pilota. Al mio arrivo, avevamo Gerhard Berger e Jean Alesi, e una brutta auto. Abbiamo ricostruito il team, l’auto non era ancora quella che volevamo, ma eravamo pronti al miglior pilota sul mercato, Ayrton Senna o Michael Schumacher. Purtroppo Senna ebbe l’incidente fatala a Imola nel ’94. Michael fu attratto dalla sfida. Era il pilota di Benetton, sapeva che guidare la Ferrari sarebbe stato molto diverso».
È stato difficile convincerlo?
«Ci siamo incontrati a Monte Carlo verso la fine del luglio ‘95, e ci è voluto solo un giorno a chiudere l’accordo».
Quali sono le qualità più importanti per un pilota?
«Talento. Impegno. Lavoro. Dedizione. Ispirazione e solidarietà verso i team».
Cosa fa la differenza tra un eccellente pilota e un campione?
«Tutti i piloti di Formula Uno sono eccezionali. Alcuni, forse tre o quattro, hanno un talento in più. È un dono. Ma chiunque sia il pilota, senza la migliore auto e il miglior team non riuscirà a vincere».
Le corse possono essere molto pericolose: è ancora vero?
«I motori sono stati pericolosi negli anni, ed è per questo che ci tengo tanto al mio ruolo di inviato speciale dell’Onu per la sicurezza sulle strade. Non è soltanto uno sport, è anche un laboratorio di tecnologia e sicurezza. Oggi la Formula Uno è molto più sicura: Ayrton Senna e Roland Ratzenberger morirono nello stesso weekend a Imola, nel ’94, ma da allora c’è stato soltanto un incidente fatale, Jules Bianchi nel 2015».
Oggi ci sono auto da corsa elettriche, che però non hanno lo stesso suono. Il pubblico si interesserà lo stesso alle loro corse?
«Le auto sono una cosa ancora nuova. Sono arrivate soltanto 125 anni fa, e il loro progresso, decennio dopo decennio, è stato affascinante. Con tutto l’impegno contro il cambiamento climatico e l’inquinamento, abbiamo fatto tanti progressi: nuova mobilità, nuova energia, nuove tecnologie, l’auto elettrica è tutto questo. Negli ultimi otto anni, la Formula Uno sta utilizzando un motore ibrido molto efficiente, nel quale credo molto. Con l’auto elettrica è arrivato un nuovo formato delle corse che si tengono nelle città, ed è un bello spettacolo, molto diverso, ma avvincente».
Cosa fa per la sicurezza stradale con l’Onu?
«Ogni anno, 1,3 milioni di persone muoiono sulle strade di tutto il mondo, e da 30 a 50 milioni riportano ferite che li rendono disabili. Gli incidenti sono la prima causa di morti e traumi tra i giovani dai 5 ai 29 anni. E non ci si rende conto abbastanza del problema. La gente crede che un incidente sia inevitabile, ma non è vero. Chi abita nei Paesi sviluppati è fortunato, in alcuni luoghi dell’Africa, dell’Asia o dell’America Latina la situazione è tragica, con scarsa educazione alla sicurezza stradale e pochissimo impegno delle forze dell’ordine. I veicoli sono vecchi, le strade orribili, e le cure dopo gli incidenti insufficienti».