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 2022  giugno 12 Domenica calendario

Intervista a Elisa Sednaoui

Delle cinque lingue che parla, Elisa Sednaoui è innamorata dell’italiano. Dice che «non lascia sottintesi». Trova l’inglese poco giocoso, l’arabo generoso e a volte troppo vago, il portoghese meraviglioso. È nata a Savigliano, è cresciuta a Bra, ha vissuto in Egitto, Francia e Stati Uniti, dove attualmente risiede, e lavorato in moltissimi altri posti. Ha iniziato come modella, a 14 anni: ha lavorato con Emilio Pucci, Dolce&Gabbana, Diane von Fustengerb e Karl Lagerfleld, che per due volte l’ha fotografa per il calendario Pirelli. Ha proseguito come attrice: nel 2015 è stata anche madrina del Festival di Venezia. Da nove anni collabora con Save the Children e dal 2013 gestisce la fondazione Funtasia, che «offre opportunità di apprendimento non formale e programmi educativi per ragazzi e di formazione professionale per adulti»,e lo fa per «contribuire a crescere la prossima generazione di cittadini del mondo». È appena uscito il libro Nessuno può farti star male senza il tuo permesso. Breve corso di autodifesa emotiva (Mondadori), che ha scritto insieme a Paolo Borzacchiello, studioso di intelligenza linguistica, e che è finito subito in classifica: la scorsa settimana al primo posto della varia e al nono dei libri più venduti in assoluto.
Quanto vale il successo di un libro?
«Quanto lo stupore: moltissimo, ma per poco. Sono felice che il nostro libro sia letto soprattutto da ragazzi, ma non dimentico che gli ultimi dati ISTAT rilevano che il 47 per cento dei giovani tra i 6 e i 18 anni non ha letto un libro nell’ultimo anno. È un dato spaventoso e nessun best seller lo ridimensiona».
Si fida dei dati?
«Certamente. Lavoro con Save the Children da molto tempo e conosco l’accuratezza delle rilevazioni. Capita però che la comunicazione dei dati sia pasticciata: mi riferisco a quello che è successo il mese scorso, quando è venuto fuori che il 51 per cento degli studenti italiani quindicenni non capisce quello che legge e, subito dopo, la stima è stata contestata perché era stata mal riportata. Il punto però è che un dato, per quanto sbagliato, qualcosa la dice: in Italia ci sono moltissimi ragazzi che hanno problemi a interpretare quello che leggono e, a parte allarmismi, non vedo risposte fattive per eliminare il problema. Così come il fatto che in classifica finisca un libro molto letto dai ragazzi non smentisce che i ragazzi leggono poco, una percentuale sbagliata non deve sollevarci dall’occuparci di un problema. E torno ai libri: che qualità hanno quelli che leggono i ragazzi? Davvero ci possiamo accontentare semplicemente del fatto che leggono qualcosa?».
Però è vero che gli adolescenti e i ventenni hanno una creatività, un’audacia e una versatilità molto spiccate.
«Non lo nego. Il punto è che i ragazzi di cui parla lei nascono e crescono soprattutto nelle grandi città. E gli altri? Questo è un altro scandalo: la difformità di possibilità di espressione del talento, di offerta formativa e culturale, di disponibilità di spazi. Mio figlio gira dei film con il suo cellulare, scrive canzoni, crea videogiochi: quando lo guardo, però, non penso che fa parte di una generazione migliore della precedente, ma penso a quanti suoi coetanei non possono fare nemmeno la metà di quello che lui sa fare, perché sono nati nel posto sbagliato».
Si è accorta di questa difformità durante le presentazioni nelle scuole del suo libro?
«Anche. Ma soprattutto mi accorgo che ci sono comportamenti sbagliati: il bullismo è un problema affrontato malissimo, gli insegnanti non sono preparati, non conoscono i mezzi, che pure ci sono, per combatterlo».
Il bullismo è davvero un fenomeno in crescita?
«È sempre esistito: ora lo vediamo di più perché sappiamo riconoscerlo. Ma è grave che, nonostante questo, e nonostante tutto quello che sappiamo che si può fare per arginarlo, sia ancora tanto diffuso, violento, sottovalutato».
Questa sottovalutazione ha un’origine culturale?
«Certamente. Ma poi c’è soprattutto una tendenza squisitamente umana ad accettare quello che abbiamo già vissuto. Le faccio un esempio moto forte, che però rende l’idea: in Egitto, molte madri sottopongono le figlie alla circoncisione femminile, sebbene non sia più legale da tempo. Lo fanno perché l’hanno subita anche loro, e per questo la considerano automaticamente giusta. Pensano: se l’ho sopportato io, puoi farlo anche tu. È un meccanismo che scatta in tutti noi, e dipende da una insicurezza irrisolta: quando non facciamo un percorso di crescita, diciamo "fa parte della vita" e così diamo per certe, assodate e inevitabili le sofferenze, le ingiustizie, la violenza. Si progredisce tutte le volte che non ci si fa bastare, come regola generale, la perpetrazione dell’identico: tutte le volte che si mette in discussione il "si fa così perché si è sempre fatto così". È come quando i bambini litigano e gli adulti quando dicono "lascia che se lo risolvano da soli". Da un lato è giusto: gli adulti non devono risolvere i problemi dei bambini, però devono saper fornire loro degli strumenti affinché non sia il più forte a vincere».
La legge del più forte è naturale?
«Può darsi. Ma fa parte dell’uomo anche migliorarsi. Nasciamo con delle tendenze, alcune buone altre no: crescere significa svilupparle. I bambini, però, non possono scegliere: seguono, imitano, assorbono chi e cosa hanno intorno. Per questo genitori ed educatori devono essere consapevoli dei propri comportamenti e aiutarli in questo è uno degli scopi della mia associazione, che ho fondato nove anni fa. Le istituzioni scolastiche si concentrano quasi soltanto sui percorsi curricolari e i programmi delle lezioni: i professori entrano nella stanza e fanno lezione. A volte, dimenticano che la scuola è il primo posto in cui i giovani vanno quando escono da casa, il primo in cui entrano in contatto con forme di autorità diverse dai genitori e dove vivono le prime interazioni con coetanei che non fanno parte del loro nucleo familiare. Quello che accade lì è cruciale: i traumi che subiscono li condizionano per tutta la vita. Alcuni li risolvono andando in terapia, da grandi, altri no, e vivono sviluppando nevrosi, paure, o atteggiamenti violenti. Di bullismo sono vittime sia coloro che lo perpetrano sia coloro che, invece, lo subiscono. Io a scuola ho vissuto situazioni terribili, ho sofferto enormemente: vent’anni fa, in Italia, in un piccolo paesino del Piemonte, non era facile avere un cognome arabo. Ero l’unica della scuola, insieme a un’altra bambina. Gli insegnanti, quando facevano l’appello, o mi saltavano o dicevano "ma sì, tu"».
L’idea che lei e il suo co-autore portate avanti, e cioè che gli altri ci feriscono fintanto che noi consentiamo loro di farlo, non è ottimistica?
«Noi cerchiamo di veicolare gli strumenti per fare un lavoro interno, con se stessi. Non possiamo controllare tutto quello che succede nella nostra vita: la perdita di un genitore, per esempio (ne so qualcosa, mia madre è morta quando avevo 33 anni). È un lutto che non si supera, un dolore troppo grande, ma ci si cresce insieme e lo si fa esercitandosi. Ciò su cui possiamo esercitare un controllo, che non significa inibire o cancellare ma portare a giusta misura, sono le nostre reazioni, i nostri pensieri: possiamo spostarli, sforzarci di concentrarci sul buono, sul bello, bloccare la negatività quando diventa assoluta, preponderante, e contrastare la tendenza del nostro cervello a infilarsi nei cunicoli dell’ansia, della paura. E non lo diciamo io e Borzacchiello, ma molti studi scientifici: a quelle tendenze del cervello, ci si può opporre. Nel nostro libro, ci sono degli esercizi per imparare a farlo. Sono semplicissimi, si tratta soltanto di farsi alcune domande, concentrarsi, ascoltare».
Risultato?
«L’aumento della consapevolezza di sè».
In La società della stanchezza, Bin Chul Han scrive che il depresso, oggi, è il grande sconfitto delle battaglie interne contro la sua propria negatività. Non ha paura di scatenare la depressione in chi non ce la fa?
«Ma chi stabilisce chi può farcela e chi no? E poi noi non proponiamo di abbattere la negatività, ma di non farsi rapire e oscurare dai pensieri di sconfitta. Pensi al bullismo: se i bambini imparassero a fidarsi delle proprie capacità, si sentirebbero molto meno feriti dagli insulti. In attesa che il bullo scompaia, non è meglio imparare a dargli il peso che merita? In attesa che gli altri imparino a gioire per noi, non è meglio gioire per parte nostra, indipendentemente da loro? Io mi sono sabotata a lungo, perché nella mia famiglia lasciarsi andare all’entusiasmo era proibito. Quando andai a trovare mio padre, a Natale, per firgli che Karl Lagerfeld mi voleva fotografare e me lo aveva detto di persona, lui mi disse: levatelo dalla testa. Mi ferì moltissimo, perché io per prima ero insicura. Voglio dire che il potere che gli altri hanno su di noi è sempre proporzionale alle nostre insicurezze».
Fare la modella le piaceva?
«Io volevo soltanto studiare. I miei genitori erano due artisti, spesso squinternati, mia madre dimenticava di pagare le bollette e io avevo fretta di rendermi indipendente perché cercavo il rigore. Quindi cominciai a posare e sfilare per guadagnare. E sbagliai. Non perché non mi piacesse quel lavoro, ma perché avrei dovuto essere forte abbastanza da rendermi conto che il mio sacrificio andava ad avallare i vizi dei mie genitori. Avrei dovuto essere forte abbastanza da chiedere loro di assicurarmi il diritto di studiare senza preoccuparmi d’altro».
L’infelicità è una colpa?
«No. E la felicità è una somma di momenti felici, che sono piccoli, brevi, ma meno rari di quello che crediamo. Anche alla felicità, forse, ci si può allenare: di certo, si può diventare più capaci di accoglierla, difenderla, cercarla o semplicemente notarla».
Cosa, della cultura araba, porterebbe in quella italiana?
«Il senso del sacro, che è molto più spiccato, e che insieme al misticismo regala anche un distacco maggiore dalle cose. È importante sentirsi parte di un disegno più grande: oltre a ridimensionare l’ego, ridimensiona l’ossessione del controllo su cosa accade. Penso alla parola Inshallah: in tanti credono che dire "Se dio vuole", significhi deresponsabilizzarsi. Invece per me significa accettare l’imprevisto. E cioè: noi facciamo del nostro meglio per far succedere le cose, ma teniamo in conto che esiste sempre la possibilità di un ostacolo, di un intralcio. Domani ci vediamo, se dio vuole. Domani andrà meglio, Inshallah».
Steve McCurry ha detto che c’è sempre la speranza che un bambino possa cambiare il mondo.
«E allora il nostro dovere di adulti è mettere i bambini in condizioni di essere bambini».