Specchio, 12 giugno 2022
Il dottore Luca Argentero. Intervista
Pompiere, astronauta, chef. No, i ragazzini vogliono tutti essere Doc. Attenzione il distinguo va fatto e la specifica è d’obbligo. La serie televisiva prodotta dalla Lux Vide sulla quale nessuno avrebbe scommesso, vale a dire parlare di ospedali in piena crisi pandemica, quando il suono di ambulanze vere si confondeva con la sirena da fiction, è stata invece un successone da numeri stellati, altro che chef. Doc-nelle tue mani, titolo catartico d’abbandono senza riserve, ha avuto il raddoppio altrettanto fortunato che ha contribuito a creare una suggestione collettiva da medico per sempre. Argentero e Giovanni Scifoni, altro medico psichiatrico in reparto, parlarono di "sindrome d’abbandono" che un paziente normalmente vive e che in questa fiction non si consuma: «Noi siamo i medici che tutti i pazienti vorrebbero avere. Siamo sempre presenti, seguiamo tutte le fasi della guarigione, non deleghiamo a infermieri che infatti quasi non compaiono in scena. L’ospedale è bellissimo e pulitissimo, in più la vicenda non è frutto di fantasia, è scritta dal protagonista reale che ha saputo imprimere le stigmate dell’autenticità».
Infatti Doc, quello vero, perché appunto esiste colui che tutta questa follia ha generato, non si capacita del riscontro infantile ottenuto. Pierdante Piccioni, dal cui libro autobiografico sono state tratte le due serie e che, continuando a fare il medico ora si è ritrovato pure sceneggiatore, svela divertito. «Vado spesso a parlare nelle scuole e poi i genitori mi portano i figli per un selfie o per un autografo. E io rivolgo, la solita domanda banale: "Che vuoi fare da grande?" E il piccoletto, "Voglio fare Doc". E io "Bravo, vuoi fare il medico", e il bimbo un po’ contrariato: "No, no, voglio voglio fare Doc". E io: "Ma chi è per te Doc?" E lui "Una persona di cui mi posso fidare, uno come papà, un esempio". Tanta positività arrivata ai ragazzi mi emoziona moltissimo. Loro più che gli adulti, sono andati oltre l’amnesia che mi ha colpito e che mi ha cambiato e dalla quale parte la fiction». Io volevo solo raccontare una storia. Ora mi occupo di integrazione ospedale-territorio nell’azienda di Lodi, dopo anni di pronto soccorso. Applico una semplice regola: faccio agli altri quello che non hanno fatto a me. Ho capitalizzato le mie traversie».
Dal doc autentico al Doc in prestito, Luca Argentero ora si trova felice di una situazione che non aveva previsto, il plauso di un pubblico giovanissimo che si identifica in lui. Argentero, che cosa ha significato diventare Doc?
«Interpretare Doc è stata innanzitutto una grande responsabilità. Abbiamo fatto il possibile per cercare di non sminuire il grande lavoro che viene fatto in reparto. Eravamo timorosi sull’andare in onda in un periodo così complesso, sul raccontare di medici e infermieri quando tutti i giorni al Tg si faceva la conta dei morti… Invece abbiamo creato un senso di calore e di vicinanza, di affetto e protezione, e la famiglia si é riunita davanti alla tv come non succedeva da tempo. Non so dire il perché, non conosco la ricetta segreta, è un’alchimia un po’ magica che a volte premia chi decide di osare: noi abbiamo rischiato e siamo stati premiati».
Anche lei ha una figlia piccola, Nina, vorrebbe facesse La dottoressa?
«Mia figlia è nata in un momento tristissimo per tutti, quando ci si guardava attraverso il velo della mascherina. Spero solo che possa incontrare il mondo a viso scoperto».
Il cinema come la tv è pieno di queste storie medical. Che cosa rende questa diversa?
«Innanzitutto che qui si tratta di una storia vera. In più il dottore non è una cattiva persona che poi diventa buona. Era in una fase evolutiva e questo trauma lo riporta a come era in origine e che non era più perché la vita gli aveva fatto privilegiare la parte più cinica di sé. Inoltre un medical come questo non si era visto prima il tv con un livello tecnico altissimo. E il coinvolgimento di Pierdante.
Adesso si sta preparando la terza serie, non la spaventano le altissime aspettative?
«Anzi, mi danno un grande entusiasmo. Il successo si traduce in voglia di fare meglio. E badi che nessuno si aspettava quel risultato. Sette mesi sul set, sottoposti a protocolli rigidissimi, siamo stati sorretti da storie pensate e scritte in modo perfetto. Dunque nessuna sindrome di George Clooney, da Er. a Doc col camice sempre addosso».
Un personaggio così comunque regala molto?
«Mi ha insegnato tanto. Forse sarà anche un fatto anagrafico ma come il dottor Fanti faccio sempre più fatica ad essere diplomatico, "torinese" come sono sempre stato. La mia personalità non è stata stravolta, però ora non medio. E sono sposato a una donna che fa dell’essere diretti un mantra».