La Lettura, 12 giugno 2022
Su "Voci in fuga" di Abdulrazak Gurnah (La nave di Teseo)
La violenza del colonialismo e della guerra, i traumi che ne conseguono, ma anche l’ostinazione della vita che resiste, con i suoi amori e le amicizie, i commerci, le chiacchiere «per le strade e nei caffè», il cielo «color ambra», l’odore del legno, «gli aromi mescolati di sapone e carne umida». Torna il premio Nobel Abdulrazak Gurnah. E tornano i suoi temi, le atmosfere e la grande capacità affabulatoria. Martedì 14 uscirà da La nave di Teseo di Elisabetta Sgarbi il romanzo Voci in fuga. «La storia — spiega l’autore a “la Lettura” — di una guerra europea sul suolo africano ancora poco conosciuta e compresa, e insieme di protagonisti che sopravvivono e cercano un’esistenza nuova, o quasi, dopo quello che hanno attraversato». Lo scrittore sarà ospite lunedì 13 con Paolo Giordano della Milanesiana, in un’edizione che quest’anno s’intitola proprio Omissioni. Al supplemento parla via Zoom del libro e dei fatti storici che lo ispirano, ma anche dei conflitti e dell’imperialismo di oggi.
Voci in fuga, uscito nell’originale inglese due anni fa, è il romanzo più recente dell’autore nato nel 1948 a Zanzibar e dal 1967 in Inghilterra. Se in altre opere, come Sulla riva del mare (2001), che si svolge in parte nell’arcipelago della Tanzania e in parte nel suo Paese attuale, l’autore si concentra su quello che l’Accademia svedese ha definito il «destino del rifugiato nel divario tra culture e continenti», in quest’ultimo romanzo l’ambientazione è tutta africana.
Il fulcro è una cittadina costiera dell’attuale Tanzania. Un centro la cui vita è ritratta dai primi anni del Novecento, sotto il dominio coloniale tedesco, fino all’arrivo dei britannici (che già dal 1890 controllavano Zanzibar). In mezzo, la Prima guerra mondiale e lo scontro tra Inghilterra e Germania in Africa orientale. «Due invasori violenti e malvagi (...) che stanno litigando per decidere chi deve mangiarci», nelle parole di Khalifa, impiegato presso un mercante in quella cittadina lungo il mare. In seguito il libro attraversa più rapidamente il Secondo conflitto mondiale, fino ad arrivare al 1963, due anni dopo l’indipendenza della Tanzania continentale (l’allora Tanganica).
Quattro, incluso Khalifa, i personaggi principali. Speculari, Ilyas e Hamza: entrambi africani che decidono di arruolarsi volontariamente nella Schutztruppe, l’esercito coloniale della Germania composto da ufficiali e sottufficiali tedeschi e soldati reclutati tra le popolazioni locali, gli askari. Ilyas, che da piccolo era stato rapito proprio da un askaro e poi educato in una scuola tedesca, non rinnegherà mai la sua scelta. Hamza invece è «un sognatore» che si è «presentato d’impulso, fuggendo da una situazione che gli appariva intollerabile»: per lui la guerra sarà dramma e umiliazione. Le conseguenze, anni dopo, arriveranno a turbare anche la stabilità del figlioletto Ilyas, che inizierà a sentire misteriose voci. Stesso nome del soldato adulto, e non è un caso, perché Hamza sposerà Afiya, la quarta protagonista del libro e sorella dell’askaro Ilyas, sul cui destino dopo l’arruolamento nulla si saprà fino alla fine del romanzo.
Una trama densa, tentacolare, ma ben congegnata e avvolgente, della quale Gurnah regge le fila con maestria e con la quale si riconnette a un’opera chiave della sua produzione, Paradiso. Ambientata anche in questo caso in Africa, arriva dove Voci in fuga si avvia. Il richiamo è esplicito, per quanto non si possa strettamente parlare di un seguito. In Paradiso il protagonista Yusuf è stato venduto dai genitori indebitati a un mercante e nelle pagine conclusive scappa arruolandosi nella Schutztruppe : è la storia che si scoprirà avere avuto Hamza, il quale in passato aveva anche fatto con il suo mercante-padrone «un lungo e difficile viaggio nell’interno». La stessa rotta di Yusuf nel cuore dell’Africa che è al centro di Paradiso. «Voglio suggerire — spiega Gurnah — che ci furono altri Yusuf, altri che si arruolarono e se ne pentirono».
Diversa, meno lineare, è la struttura di Voci in fuga. Dalla storia di Hamza scaturiranno gli sviluppi maggiori, innestando nel romanzo storico l’incanto di un amore e lo snodo generazionale attraverso il figlio. Ma questo filo narrativo diventa centrale piuttosto tardi. «Era importante — chiarisce l’autore — stabilire prima il contesto, descrivere la quotidianità di chi nella cittadina costiera cerca di andare avanti nonostante la guerra. Quando Hamza arriverà, dovrà a sua volta apprendere cose che il lettore ha già imparato».
Il narratore in terza persona di Gurnah ha un tono sobrio ma, attraverso l’uso del dialogo e del punto di vista interno dei personaggi, emerge con chiarezza e talora con forza espressionista la ferocia dei colonizzatori. «Il fatto che un singolo tedesco sia stato gentile con te — dice un amico di Khalifa a Ilyas — non cambia quello che succede qui da anni (...). I tedeschi hanno ucciso tanta di quella gente che il paese è costellato di teschi e di ossa e la terra è inzuppata di sangue».
Merito del premio Nobel è appunto riportare alla luce fatti storici che ai più in Europa sono ancora poco noti. «Sono accaduti — osserva Gurnah — e questo è già un motivo per rivisitarli. L’altro è che non si conoscono o sono ritenuti eventi minori, mentre sono più grandi di quanto si pensi». Questo, prosegue, «perché un conflitto come quello di cui parlo nel libro ha coinvolto pochissimi europei: la maggior parte dei combattenti era africana o indiana. La guerra europea si riversò in parti di mondo dove spesso le vere ragioni non furono neppure comprese, mentre la realtà era che gli africani si uccidevano tra loro per decidere chi sarebbe stato il loro capo coloniale». Rilevante il focus sulla Germania: «Negli anni Trenta e Quaranta successero cose ancora peggiori con le quali i tedeschi avrebbero dovuto fare i conti, quindi la fase coloniale è passata in secondo piano. Ma ora c’è voglia di conoscere». Nelle ultime pagine Voci in fuga, attraverso l’askaro Ilyas, emigrato in Germania, si riconnette proprio con gli anni terribili di Hitler, evocando in particolare il Reichskolonialbund, l’organizzazione nazista che puntava a riappropriarsi delle colonie perse con il trattato di Versailles.
La forza di Gurnah è che la narrazione non è mai ideologica o didascalica ma avviene attraverso la vita intima dei personaggi, incluse le loro contraddizioni, ribadendo la sua fede in una letteratura complessa e non semplificatoria. Lo si vede nel rapporto tra Hamza e alcuni oppressori. Come il tenente tedesco che sembra invaghirsi di lui e lo vuole al suo servizio. Lo mortifica ma al contempo gli insegna il tedesco, lo chiama «selvaggio» ma gli dona un libro di Schiller. «Anche quando c’è un esercito che ha lo scopo deliberato di infliggere violenza — osserva l’autore — non è detto che tutti siano sempre desiderosi di farlo. Mi interessa questa incertezza. Un dilemma di cui, se sei un ufficiale, non puoi neppure parlare, altrimenti sei un traditore. Il tenente non riesce a credere pienamente al suo ruolo, alle storie che lui stesso racconta sull’inferiorità degli africani, ma non può dirlo. E così finisce per alternare il prendersi cura con atti di ferocia e dominio».
Nel romanzo si parla di un ospedale colpito, di commerci interrotti, di propaganda... «Alcuni aspetti della guerra sono sempre gli stessi, e certo non ci si può aspettare verità dagli invasori», nota Gurnah, arrivando a parlare del conflitto in Ucraina. Dice di apprezzare «la solidarietà delle persone verso quanto sta accadendo a quella nazione e ai suoi cittadini», ma non può non constatare il diverso trattamento dei migranti dall’Africa. «Ciò che possiamo fare — suggerisce — è continuare a dire che bisogna aiutare chiunque abbia bisogno, che è disumano non farlo. Ma non possiamo costringere a sentire diversamente, si può solo ripetere ciò che va ripetuto». Pur con tutte le differenze del caso, parlando di ieri e di oggi, Gurnah osserva che «l’imperialismo esiste ancora, quello dei russi, ma non solo». Ciò che sta facendo Mosca «è completamente sbagliato, ma lo choc nasce perché lo sta compiendo in Europa, nell’Ucraina che è così vicina. Con il comportamento dei Paesi europei o della Nato in Iraq, in Afghanistan o in Somalia invece abbiamo convissuto a lungo. Il mondo è pieno di conflitti, la maggior parte portati avanti per soddisfare le ambizioni occidentali. Il che penso abbia ancora a che fare con la sotterranea convinzione di essere un’umanità superiore, che può fare questo ad altri individui».
Come dovrebbe agire oggi l’Occidente, in bilico tra la necessità di riconoscere le proprie colpe e quella di contrastare un Paese non democratico come la Russia? «Io sono solo un umile scrittore — dice Gurnah —, certamente è utile leggere, studiare, cercare di capire. Per fortuna oggi ci sono dibattiti in corso, discussioni inimmaginabili un paio di decenni fa. Ad esempio sulla politica per accogliere i rifugiati o su quale sia il modo corretto di affrontare l’orribile storia del colonialismo. Sono già in atto restituzioni di opere d’arte e risarcimenti prima impensabili, anche se non ancora da parte dei britannici. Arriverà anche il turno dell’Italia di fare i conti con il passato coloniale. Questo avviene confrontandosi, tornando su fatti oscurati, nascosti. Sono fiducioso, è pieno di borse di studio, ci sono individui consapevoli che c’è ancora qualcosa di cui dobbiamo parlare. Capire quanto accadde serve anche a comprendere come stanno le cose oggi».