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 2022  giugno 11 Sabato calendario

Giancarlo De Cataldo su "La Svedese" (Einaudi)

Ho incontrato la Svedese a Villa Valmarana, la meravigliosa Villa ai Nani di Vicenza. Una creatura dai capelli corti e biondissimi, altissima, snella ai limiti del filiforme. Si aggirava fra quelle stanze cariche di storia e di bellezza, appuntando assorta gli occhi di un azzurro glaciale sui meravigliosi affreschi dei Tiepolo. Non commentava, rigido anche il linguaggio del corpo: non riuscivo a capire se fosse la classica turista folgorata dalla magnificenza dell’arte italiana, un’adolescente annoiata o semplicemente un’anima stanca di tutta quella storia, di tutta quella bellezza. Ci siamo incrociati nuovamente nel giardino della villa, sul far del tramonto. Con lei c’erano una coppia adulta- con ogni probabilità i genitori- e un fratellino irrequieto. L’ho sentita scambiare battute in una lingua sconosciuta, aspra e gutturale allo stesso tempo, di inequivocabile ceppo nordico. La sua voce, profonda ma con improvvisi e imprevedibili acuti, mi è apparsa senza tempo e senza sesso. Una ragazza? Un ragazzo? Un androgino perfetto. Mi sono avvicinato con aria indifferente, sono riuscito a incrociare il suo sguardo, gli occhi sempre di ghiaccio, magnetici.

Ho deciso che era svedese. Ho deciso che sarebbe stata la protagonista del mio prossimo romanzo. Ma c’era un piccolo problema: io avevo già un protagonista, Manrico Spinori, contino e pubblico ministero melomane. Alla Svedese, dunque, non poteva che toccare uno dei due ruoli indispensabili in un «crime»: quello dell’antagonista o quello della vittima. L’antagonista dovrebbe essere odioso, e io sentivo già di amare la Svedese. Quanto alla vittima, è un fantasma che si agita sullo sfondo, un’evocazione, un’ombra: e io, invece, la mia Svedese volevo farla brillare, la volevo agitata, passionale e insieme lucida. Non volevo un cadavere, ma una giovane vita che pulsasse di energia: ero intenzionato a sfruttare sino in fondo la signoria che il privilegio di raccontare storie conferisce allo scrittore, il diritto di disporre a proprio piacimento del destino dei personaggi. Signoria però ambigua: quando un personaggio rivendica il proprio posto nel mondo, quando si fa corpo caldo e vibrante, afferra le redini e comanda il gioco. La Svedese pretendeva la «sua» storia. Non c’era altra soluzione se non quella di sacrificare, almeno per il momento, Manrico. Ho esitato. C’era un accordo con l’editore, e poi il romanzo era già abbozzato, e insomma… Ma la Svedese si era ormai impadronita di me, con quella sua aria imbronciata e combattiva: l’autore sei tu, sei tu che decidi.

E così, vinta ogni resistenza, ho cominciato a lavorare per dare alla Svedese una vita che fosse degna di lei. Sono partito da uno spunto di cronaca. Emergevano, in quei giorni, dettagli su un’inchiesta della Procura di Roma che aveva per oggetto le nuove sostanze stupefacenti: dalla cosiddetta «droga dello stupro» ai «catinoni sintetici», composti chimici con formule che si rinnovano continuamente. «Roba» destinata ad allietare le notti elettriche della Capitale, da consumarsi in alternativa o insieme alla droghe più tradizionali. Venivano divulgate intercettazioni sorprendenti, che svelavano un contesto di festini e orge di insospettabili borghesi, dietro il cui glamour spesso si nascondevano drammi della disperazione, fragilità individuali, cupio dissolvi. Per il momento si trattava di un «giro» di spaccio ancora agli albori, gestito da piccoli trafficanti, spesso con espedienti para-legali, come l’acquisto on-line di sostanze da noi proibite ma legali altrove, il pagamento in criptovalute, e via dicendo. Ma è mai possibile, mi sono detto, che la malavita organizzata, quella dura e pesante che ho imparato a conoscere in quarant’anni di mestiere del giudicare, si tenga lontana da tutto questo «ben di Dio»? Prima o poi ci arriveranno. E questo scatenerà un conflitto con i pesci piccoli.

Ho cominciato a riflettere sui miei ultimi anni di lavoro, su come stava cambiando la geopolitica malavitosa della Capitale. Si avvertiva l’incombere di mafie etniche, prima fra tutte l’albanese. Si moltiplicavano i sequestri e le confische di locali e altri beni acquisiti con modalità criminose. La presenza massiccia della ‘ndrangheta era un dato di fatto ormai certificato da decine di accertamenti. E, allo stesso modo, altre decisioni avevano messo in chiaro che a Roma il crimine non aveva più un imperatore indiscusso- come ai tempi della Banda della Magliana- ma che si procedeva per accordi fra famiglie, gruppi, «batterie» spesso improvvisate. Una situazione fluida che rendeva «la strada» potenzialmente ingovernabile: finché l’accordo regge, ciascuno si fa in pace i propri affari; quando qualcuno alza troppo la testa, comincia a scorrere il sangue. Come collocare la Svedese in un simile coacervo di elementi? Semplice. L’ho piazzata al centro di tutto. Gliel’avevo promesso, no? Sarai la protagonista. Lo è diventata.

Ho detto che lo spunto mi è stato suggerito dalle notizie di inchieste recenti. E questo mi ha portato ad affrontare di petto un contesto dal quale sinora mi ero tenuto alla larga: la pandemia. L’intera trilogia di Manrico si svolge in anni precedenti il primo lockdown del marzo 2020. Non avvertivo la necessità, e tanto meno il piacere, di raccontare l’incubo: viverlo era più che sufficiente. La Svedese mi ha convinto che il tempo della difesa era passato. Si poteva affrontare il tema. La Svedese è una storia dentro la pandemia, a cavallo della seconda ondata. Ho raccolto testimonianze, ritagli di giornali, e ho pescato nei miei ricordi e in quelli delle persone a me più vicine per restituire un racconto quanto più realistico possibile: non tanto di quello che si è fatto durante la pandemia, quanto di ciò che si è «sentito» in quei giorni durissimi. La Svedese è una ragazza, mi sono sforzato di pensare come lei, e come i tanti che hanno vissuto in una bolla di disagio, insofferenza, antagonismo. Mi sono sforzato di vederla come quei ragazzi e quei disagiati che non potevano permettersi i duecento metri quadrati in centro, il posto fisso, il ristorante gourmet d’asporto. E ho chiesto alla Svedese di comunicarmi la sua rabbia, il suo impeto, la sua freschezza e la sua astuzia.

Così la Svedese è diventata la protagonista di un’ascesa criminale nei giorni della pandemia, muovendo dalla sua immaginaria borgata alla conquista del centro. Infine, ho chiesto alla Svedese di spiegarmi come ama la Svedese. Dopo tutto, questa è anche una storia d’amore. L’amore fra la Svedese e il principe Orso Alberto de’ Venturi, un aristocratico gay dal misterioso passato. È un uomo molto potente: neanche io stesso ho ben chiaro che diavolo abbia combinato da giovane e quanto solida sia la sua attuale rete di relazioni, ma so che il Principe può fare cose che noi umani… Ebbene, Orso rimane folgorato dalla Svedese come l’Aschenbach manniano soccombe all’incantesimo dell’irraggiungibile Tadzjo. Per motivi che non vorrei anticiparvi, ma che hanno molto a che vedere con le ragioni per le quali, dopo averla vista alla Villa Ai Nani, non sono riuscito a smettere di pensare a lei. Ma io, almeno, sono riuscito a imprigionarla nelle pagine di questo romanzo.