La Stampa, 12 giugno 2022
Quel che resta del Po
Il Po ha sete e si prosciuga a vista d’occhio in una siccità mai vista da 70 anni. Le temperature sopra la media di anche quattro gradi e la persistente assenza di piogge stanno mettendo a dura prova il bacino padano che di acqua ha più che mai bisogno per la sua agricoltura, per il settore idroelettrico, per combattere i cunei di salinità che dall’Adriatico avanzano nell’entroterra e si propagano nelle falde.
In certe aree del delta l’irrigazione delle colture è sospesa e i pioppi che una volta tenevano gli argini ora muoiono perché le loro radici profonde pescano nell’acqua salata. Dalle Alpi non arriva nulla di buono, la neve si è sciolta da tempo, i laghi sono ai minimi storici e gli invasi sono all’asciutto.
Il grande fiume che una volta faceva paura per la sua irruenza ora fa compassione. Sono lontani i tempi quando le sue rotte devastavano la pianura e portavano via interi paesi. Come Guarda ferrarese che ancora oggi ha la chiesa rivolta alla riva e davanti non c’è più nulla perché il froldo su cui stavano assiepate le case se l’è portato via la rotta che Bacchelli descrive nel Mulino del Po. Tutto sembrava fragile davanti alla forza del Po e quel ponte di barche che ingentiliva il paesaggio fra Ro ferrarese e Polesella diventava un presepio quando d’inverno si copriva di neve. Le sue luci tremavano al passaggio delle onde nere che avvolgevano gli scafi.
Ora colossali ponti su piloni di cemento scavalcano sabbie bianche solcate da pochi rivoli. Nella battaglia di Polesella del 1509 i ferraresi riuscirono a sgominare una flotta veneziana proprio usando come arma la loro conoscenza del fiume e le sue acque. Non lo sapevano i veneziani che un’imminente piena avrebbe innalzato i loro galeoni esponendoli al tiro delle bombarde ferraresi nascoste sotto gli argini. E così fu un tiro a bersaglio per i cannonieri di Ippolito d’Este la fatidica battaglia che mise fine alla navigazione veneziana sul grande fiume.
È forse sul delta che si percepisce meglio la fragilità dell’equilibrio fra terra e acque, nel paesaggio quasi desertico di una delle aree già storicamente meno piovose d’Italia. Come se la pioggia si sentisse un’intrusa a venire a cadere proprio qui in mezzo a tutta quest’acqua. Qui la terra è così giovane, appena emersa, che nella lontananza stenta a staccarsi dal cielo e anche dove sembra fitta di vegetazione, a vederla da vicino si rivela un canneto cresciuto nell’acqua. Lo si attraversa in barca e domani potrebbe non esserci più. Dalle nostre parti il Po è confine estremo, fine e inizio di tutto. Per sfida andavamo a farci il bagno, senza nessun piacere a annaspare in quell’acqua limacciosa e increspata di schiume, che sapeva di concime e di carburante.
Ci faceva paura sentire i piedi che affondavano nella melma e l’acqua che ci avvolgeva pesante. Ci poteva trascinare via in un attimo se solo ci fossimo arrischiati ad allontanarci dalla riva. La vedevamo a pochi metri da noi la striscia infida della corrente. Ma poi potevamo dire che ci eravamo tuffati in Po. La stessa acqua marrone ce la ritrovavamo quando andavamo a sguatterare sulle spiagge nere del Lido di Volano, appena sotto la foce. Lì c’erano sdraio e ombrelloni a darci una parvenza di mare. Ma mancava lui, il grande fiume, con i suoi gorghi neri e le fredde correnti che ti tirano per i piedi.
«Se scopro che vai a nuotare il Po ti lego a letto!» minacciava mia madre che nelle acque del fiume aveva perso una sorella. Io appena tornato a casa dopo il bagno mi cospargevo di borotalco per coprire la puzza di melma. Non per nulla dalle nostre parti buttarsi in Po è il gesto estremo di chi non ha più nulla da perdere. E ci veniva la pelle d’oca a sentire i nostri padri raccontare di quei tedeschi che nella disperazione della ritirata, non trovando più ponti, si erano buttati a nuoto credendo di potersi salvare.
Ci tornano ancora i tedeschi sul Po, a Serravalle, dove il fiume si biforca, in uno squallido campo di bungalow, a pescare il pesce siluro. Si avventurano mezzi nudi e bruciati dal sole in barchette troppo piccole per le loro stazze, con in testa cappelli di cuoio da Indiana Jones. Sfoggiano canne sportive con mulinelli di lusso e lenze d’acciaio ai cui ami attaccano polli interi come esche per l’orrido pesce che qui nessuno mangia e loro invece si cuociono sotto i pioppi della golena bevendo birra calda e offrendosi in pasto alle zanzare nella fradicia notte ferrarese. Anche questo è un insulto al grande fiume.
Venendo dalla campagna il Po si annuncia con il suo maestoso argine, che sembra la muraglia di una città scomparsa. Era un traguardo arrivarci in bicicletta nelle sere d’estate e salire ad ammirare quell’acqua nera che scorreva via rabbiosa e veloce. Tornavamo a casa quasi sollevati di avergli reso visita, spinti da un vento leggero che ci piaceva pensare fosse lui a mandarci per facilitarci il ritorno.