la Repubblica, 12 giugno 2022
La fibra e la vanga
Per cablare il Paese bisogna innervarlo con la fibra, ma la fibra non è immateriale: ci vuole chi scava e ci vuole chi la interra. Solo che non si trova la manodopera per farlo, almeno stando a quanto denunciano le società interessate. Non potrebbe esserci metafora più eloquente di questo passaggio d’epoca: si parla solo di rivoluzione tecnologica, la fibra che decuplica potenza e velocità della comunicazione, il drone che programma tempi e modi dell’agricoltura, il virtuale che annulla le distanze e rende inutile la compresenza, eccetera. Tutto leggero, etereo, quasi metafisico, fino a che questa avanzata gloriosa non inciampa in una clamorosa dimenticanza: quella del lavoro materiale, gli operai, gli scavi, le ruspe, l’infinita gamma di ingegnose fatiche che la robotica non è in grado di rimpiazzare. Le mani, le braccia, le gambe, gli occhi dell’uomo, nonché la sua esperienza, sono macchine raffinatissime, frutto di migliaia di anni di evoluzione e di cultura tecnica. Già ne disponiamo. Già sono collaudate. Solo che bisogna pagarle il giusto. E per pagarle il giusto, bisogna dare il giusto valore, il giusto rispetto al lavoro manuale. Questo valore e questo rispetto furono fortemente inseguiti, e rivendicati, dalla classe operaia del tempo che fu. Cipputi era orgoglioso del lavoro ben fatto. Impossibile ripristinare lo stesso scenario storico, sociale, economico, e però da qualche parte bisognerà pur ripartire per ristabilire un decente equilibrio tra la fibra e la vanga. Il mondo è materia, la vita è un’esperienza materiale, e ogni volta che ce lo dimentichiamo siamo richiamati alla realtà. Senza operai, senza contadini, senza pescatori e pastori, senza infermieri e badanti, zero futuro.