Corriere della Sera, 11 giugno 2022
I frammenti di vita di Franco Cordelli
«Oggi, per esempio, la quantità di rischio che ho deciso di affrontare è quella consueta, cioè quella media». Così parla uno dei narratori di Tao 48, il nuovo libro di Franco Cordelli (La nave di Teseo). Quel personaggio, che rievoca i viaggi in treno tra Milano e Roma fatti nei primi anni Sessanta, forse gli somiglia, nella vita. Ma lo scrittore, si sa, è sempre (quasi sempre) un’altra cosa e a Cordelli scrittore le mezze misure, scrivendo, non piacciono. Altrimenti perderebbe la sua peculiarità, che è, appunto, il rischio, cioè la peculiarità della grande letteratura. Abbiamo a che fare con un paradosso, in questi organismi di un unico organismo pluricellulare che sono i capitoli di Tao 48: il paradosso, non l’unico, è che il rischio che si prende Cordelli facendo letteratura è puntare sui vuoti, rimuginare sulle mancanze, sugli atti non compiuti, sugli imprevisti, sulle esitazioni.
Anche per questo, Tao 48 è un’unità in cui ogni parte è parte del tutto o, meglio, di un tutto lacunoso, di un «quasi tutto», visto che i 48 capitoli del titolo, numerati in ordine progressivo, sono in realtà 32 ma gli altri 16 sono assenze e salti che fanno sistema, come a segnalarci che il vuoto è strutturale e irrinunciabile, come i silenzi e le sospensioni lo sono in ogni espressione della parola. E che al cospetto degli avvenimenti non ci sono che congetture (Viktor Sklovskij dixit, e Cordelli sembra crederci). Congetture per lo più (inevitabilmente) imperfette espresse con il massimo di precisione: lo stile di Cordelli è un investimento folle nel massimo di precisione per raccontare i vuoti indicibili dell’esistenza e della parola. Esattamente al contrario di tanta paraletteratura che con il massimo di imprecisione stilistica vorrebbe restituire un presunto senso del mondo.
Un saggio di Maria Corti dimostrava, anni fa, come il modello ripetitivo sotteso ai vari racconti di Marcovaldo facesse del libro di Calvino non una raccolta di racconti ma un macrotesto capace di incrementare la complessità narrativa dell’insieme in virtù delle relazioni e dei rimandi interni. Lo stesso vale per Tao 48, per cui ha ragione l’autore quando avverte che «questi testi, scritti in un arco di tempo di quarant’anni, non sono né novelle né racconti». Si tratta, pertanto, di una ricomposizione a posteriori di testi nati occasionalmente nel tempo e rifunzionalizzati (e in parte riscritti) per un progetto d’insieme. Detto ciò, nel chiedersi quali siano gli elementi che fanno di questo libro un organismo coerente, si riconoscerà la complicità di due «isotopie», di ordine formale e di ordine tematico, che peraltro accomunano Tao con i romanzi precedenti: già in Una sostanza sottile si affacciava il Tao-tê-ching, con la sua «sapienza da noi aliena» e con la sua malizia. E c’era anche il motivo della malattia, che si cela qui nella polisemia di «Tao», acrostico di «Terapia anticoagulante orale», la cura a cui l’autore deve sottoporsi mensilmente per sempre. Cura che salva (come la letteratura?).
Tra i «fili invisibili del narrare» che legano i capitoli c’è il rapporto perplesso col mondo e con il tempo, che smuove la narrazione imponendo un continuo ricorso all’interrogativo oppure all’affermazione via via smentita o aggiustata, cioè al ripensamento. E ci sono i personaggi, che in genere sono voci più che personaggi, ricorrenti nella loro enigmaticità di fantasmi, di ombre o di figure (teatrali), magari quelle femminili con nomi scespiriani: Costanza, Miranda, Emilia…
Sopra, sotto, dentro, intorno, riposa lo scenario di Roma, con la sua «antichità tutta particolare perché non è mai estranea, è anzi familiare, come se tutto fosse tanto più antico e dunque più familiare: il pasticcere, il droghiere, il garagista». Grandiosità e quotidianità domestica. Ogni capitolo un quartiere, una strada, un edificio, un monumento: Paradiso, Forlanini, Porta Pia, Corviale, Termini, Pantanella, Fornaci… Per ogni luogo un episodio, un ricordo, un incontro realizzato o mancato, una luce, un sogno, un segno, una coincidenza, un’increspatura, una ferita, una felicità, uno o più amici presenti o remoti, un amore cercato e/o respinto, le sensuali (sempre sensuali) donne incrociate di passaggio o frequentate per una vita, interni decadenti, una o più storie sovrapposte o giustapposte, fatti di cronaca nera che evaporano chissà dove.
Nella tappa numero 22, a Lancellotti, irrompe la notizia del rapimento di Moro, il 16 marzo 1978: l’io narrante, un critico teatrale (come l’autore), tormentato per anni da un’attrice famosa infuriata per una stroncatura, prova a ricostruire gli inquietanti imprevisti di quella mattina, il telefono che squilla insolitamente, la casa messa a soqquadro durante la notte, il pavimento della cucina che ha cambiato colore, il frigorifero scomparso, la madre che non risponde, un sovvertimento nel corso delle cose. Come è potuto accadere? E proprio quel giorno?
Ci ritroviamo in una sorta di realismo magico tutto cordelliano, in cui l’io narrante avverte con ironia o con sottile angoscia l’estraneità agli altri e a sé stesso («siamo tutti marziani», dirà Ennio Flaiano incontrato nell’ultima tappa). È la vertigine con cui il lettore di Tao 48 dovrà spesso fare i conti: cercare (inutilmente) di verificare la credibilità o la verità di ciò che legge, vede, sente. È la stessa fluidità, seducente ma oscura – seducente perché oscura – del racconto e della riflessione che lo costringe a chiedersi a ogni passo: dove mi trovo? Chi sta parlando? Con chi ho a che fare? Per scoprire che nessuna certezza ci può confortare: «Ma non c’è nulla che non sia per ciascuno di noi oscuro, oscuro più di quello che pensiamo – e di quel che diciamo».
La tappa 32 comincia con una domanda cruciale: «Quali erano le radici del racconto?» e con una risposta disarmata: «In quel momento, disilluso, non intendeva afferrarne il senso, interpretarlo, usarlo come chiave per capire qualcosa di sé». Quello stesso capitolo, che si sviluppa sulla malinconia di Costanza a cui il narratore cerca di porre rimedio regalandole un cane, si conclude con la cronaca nera, doppiamente cruenta e assurda, di un incidente notturno. La morale di quella vicenda incredibile è in un duplice interrogativo che percorre sotterraneamente l’intero libro: «Chi può mai dire quando e come avviene ciò che avviene? Chi ne può stabilire i modi e la ragione?». C’è come detto un velo di angoscia, ma c’è anche un’ironia che si/ci spinge fino al gioco e al doppiogioco, al gusto del mescolare le carte, dell’inganno e del tranello, del confondere ad arte autobiografia e invenzione o finzione teatrale: «Ciò che di Costanza era massimamente imprevisto, che non seppe a lungo riconoscere, era ciò che si ripeteva ogni giorno, era il suo teatro».
Ed ecco, infine, il tempo: «Era il tempo che gli piaceva – e dunque non gli piaceva. Addirittura lo aborriva». Il tempo che, date le premesse, non può essere un tempo lineare: il romanzo non è una «macchina del tempo», è semmai, come accenna qualcuno nelle pagine iniziali, una «macchina contro il tempo». Lo è decisamente Tao 48, pur avendo una sua compiutezza piuttosto sorprendente una volta arrivati all’ultima tappa, la 48. Lì «il tempo da uccidere è stato ucciso», dice Ennio Flaiano, lo scrittore amato, autore di Un marziano a Roma, che il Cordelli postumo immagina di incontrare su Marte. Nel coup de théâtre conclusivo l’autore, dopo tanti mascheramenti tra prime e terze persone, compare con il suo nome e cognome: Cordelli è Cordelli, ma al contempo dice di essere chiamato Pathfinder, come il protagonista di un famoso videogioco o gioco di ruolo fantasy. «Non vi è nessuno più ricettivo di me», dice al Maestro seduto su una roccia rossa, «sono in grado di fornire ogni tipo di informazione (...). È una speciale sensibilità all’ambiente. È il cosiddetto feedback. Ma potrei più semplicemente definirmi una spugna». Già, ma la spugna assorbe e cancella, come in fondo la letteratura, lasciando vuoti, buchi, spazi bianchi su cui ossessivamente tornare.