Corriere della Sera, 11 giugno 2022
Alberto Matano parła del suo essere gay
«Sono quindici anni che stiamo insieme. Durante una cena, un paio di mesi fa, Mara, la nostra amica del cuore che oggi celebrerà, ha detto che sarebbe stato bello che noi ci sposassimo. Riccardo ha subito detto di sì. Era euforico. Io anche ero contento. Poi, nel fine settimana, sono entrato in crisi. Ho pensato a tutto quello che ci circondava, alla dimensione esterna di qualcosa che ci riguardava così privatamente. La sera, a casa, abbiamo parlato, abbiamo discusso, ci siamo accapigliati, ci siamo abbracciati e abbiamo deciso che sì, era la cosa giusta da fare. Oggi celebreremo un amore che merita un vestito formale».
Chiedo ad Alberto Matano di parlare della sua infanzia, a Catanzaro.
«Ero molto felice, nei primi anni. La mia famiglia era molto armonica. I ruoli si intercambiavano, tra mio padre e mia madre. Mamma era un’insegnante, sempre molto attiva sul piano associativo, sindacale. È stata anche l’unica assessore donna nella giunta comunale di Catanzaro, rappresentava la Dc. Stava poco a casa, fisicamente. Ma era sempre presente. Ricordo l’infanzia come giorni sereni, lieti.
Ma poi il cielo si annuvolò. Attorno ai 14 anni mi sono accorto con dolore che non crescevo. I miei amici erano almeno venti centimetri più di me. E allora la mia stanza si chiuse a chiave, come un riparo dal mondo. Perché fuori mi sembrava che le cose andassero a rovescio. Ho sofferto il bullismo. Mi isolavano dai giochi, mi prendevano in giro, mi sentivo ai margini della vita. Ma ho combattuto, non mi sono piegato. Mi sono detto che ce la dovevo fare. Ho trovato la forza e tutto quello che di buono mi sta accadendo è figlio di quella volontà di non subire. In terza liceo, dopo un’estate, sono cresciuto e sono diventato come sono ora».
Credo che Matano non ami le definizioni conclusive, i recinti, anche a proposito delle sue scelte sessuali.
«All’inizio ho avuto una vita eterosessuale, avevo successo con le ragazze. A 24 anni ho interrotto una storia d’amore. Capivo che dentro di me c’era altro, che dovevo esplorarmi, capirmi. Per dieci anni sono stato irrequieto. Cercavo un’appartenenza, anche esasperata. Pensavo che questo mi desse sicurezza. Qualcuno ci riesce. A me invece un’identità chiusa stava stretta. Una mia amica psicoterapeuta un giorno mi ha parlato del continuum psicosessuale come di un punto dove ciascuno di noi si può trovare, che non è mai uguale a quello di un altro. Poi è arrivato Riccardo e tutto, nella mia vita, si è stabilizzato. La mia stabilità è stata una persona, non un’identità».
Proviamo a ricordare l sua stanza chiusa.
«Per me, in ogni campo, i recinti sono l’antitesi della libertà. Ho capito negli anni che le persone hanno bisogno, per rassicurare sé stesse, di dare te o anche di assegnare a sé stessi una categoria, una casella, un’appartenenza, sessuale, politica, anche sul lavoro. Tutto questo rassicura, ma è fragile. Nell’adolescenza dovevo uscire da un ambiente chiuso, opprimente. Detestavo gli stereotipi, ero uno spirto libero. Nella mia stanza c’era il mondo intero. Mi mettevo lì e ascoltavo Sting, Tracy Chapman, Sade, David Bowie. E leggevo. Orwell, Dickens e poi i poeti romantici come Keats, Shelley, Byron. La mia preferita era una poesia di Spencer, che mi è tornata in mente in questi giorni. Comincia così: “Un giorno scrissi il suo nome sulla spiaggia,
Ma arrivò un’onda e lo lavò via:
Ancora una volta ho scritto con una seconda mano,
Ma arrivò la marea, e fece del mio dolore la sua preda.”
Ma poi finisce con: “I miei versi renderanno eterne le tue rare virtù,
e scrivo nei cieli il tuo nome glorioso;
e quando la morte sottometterà tutto il mondo,
Il nostro amore vivrà e si rinnoverà alla vita”».
Gli chiedo come è stato dire di questa ricerca libera ai suoi genitori.
«All’inizio erano disorientati. Io sentivo il bisogno di condividere con loro questo mio travaglio. Una sera ho deciso. Sono tornato a casa, ho spento la televisione che stavano vedendo e gli ho detto che volevo parlargli. I mei fratelli sapevano ed erano solidali. Quella sera è stata la chiave di risoluzione della mia vita. La svolta della mia vita emotiva interiore è stata proprio quando ho raccontato a loro come stavano le cose. Per loro non è stato semplice, nelle prime ore, accettare tutto questo, lo capisco. Poi da quel momento sono stati sempre al mio fianco, sempre accoglienti, solidali. Ora Riccardo viene vissuto come il quarto figlio. Oggi due cose mi fanno davvero felice: lo sguardo di Riccardo e la partecipazione serena dei miei genitori a questo momento».
Matano è colpito dall’affetto che la gente che incontra per strada o che scrive sui social gli manifesta. Io penso che sia il prodotto di anni di battaglie, in primo luogo delle donne e della comunità Lgbt. Lotte contro muri duri a morire. Lotta eterna. Ma ora credo che la maggioranza degli italiani, un Paese in cui sono oggi anziani quelli che erano coevi del sessantotto, sia molto più maturo e aperto di prima.
«Forse il messaggio di rifiuto della ghettizzazione e il tentativo di affermare la normalità di ogni scelta sessuale sta passando. Non percepisco attorno alla scelta mia e di Riccardo nessuno stupore, nessuna morbosità. Siamo travolti dall’affetto di persone che capiscono che siamo due anime che si sono cercate e trovate. Due persone che si amano. Tutto qui. Ed è bello. Ti racconto questo. L’altro ieri sera mia madre ha ricevuto una telefonata da una sua vecchia amica, militante sindacale come lei, che le ha detto: “Sono molto colpita perché tuo figlio, con questo gesto, sta continuando le nostre battaglie”. La sua commozione e la mia mi hanno detto che tutto quello che ho fatto nella mia vita, anche questa scelta, è frutto del clima respirato dentro quella famiglia, del rifugio sicuro che ho avuto, dell’esempio avuto a da loro che sono due persone perbene, semplici, sane, aperte e anche coraggiose».
Gli chiedo di ricordare il momento in cui ha deciso, dopo che il blocco della legge Zan era stato salutato in Parlamento da assurde manifestazioni di entusiasmo, di reagire.
«Il giorno dopo ero in auto, stavo andando al lavoro. Chiamo Mirko, che è il mio braccio destro, e gli dico: “Noi oggi non possiamo non parlare della legge Zan, prepariamo un servizio su tutti i casi di omofobia di cui ci siamo occupati. Poi ho sentito dentro di me il bisogno di fare qualcosa, avevo un terremoto dentro. Mi sembrava che l’Italia stesse diventando chiusa come la mia stanza a Catanzaro. Ho deciso di dire delle parole. Ho informato i mei collaboratori che hanno applaudito e questo mi ha commosso. Poi, al termine del servizio, ho chiesto alla regia di inquadrarmi e ho pronunciato, stavolta con rabbia, queste parole: “Vi devo dire che tutto questo mi procura grande sofferenza perché è successo anche a me, l’ho provato sulla mia pelle e so cosa vuol dire. Quindi mi auguro che su un tema così importante ci possa essere un supplemento di riflessione da parte di tutti”. Niente di eroico, sia chiaro. Ma sentivo il dovere civile di farlo. Ed è stato utile».
Gli chiedo di immaginare di voltarsi, durante la cerimonia, e vedere Alberto, ragazzino di un metro e sessanta, tra gli invitati. Cosa gli direbbe?
«Lo abbraccerei e lo ringrazierei. La sua sofferenza e la sua forza sono state la condizione essenziale della mia gioia di oggi».