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 2022  giugno 11 Sabato calendario

In morte di Barry Sussman, terzo uomo del Watergate

Tra il 1953 e il 1961, Nixon fu vicepresiden-te di Dwight Eisenhower. Sconfitto alle presidenziali del 1960 da John F. Kennedy, si ricandidò e vinse nel 1968. Rieletto nel 1972, fu costretto alle dimissioni – l’unico presidente nella storia americana – dalle conseguenze dello scandalo del Watergate
Strano ma vero, il mitologico direttore del Washington Post che affondò la presidenza Nixon, Ben Bradlee, non amava il film «Tutti gli uomini del presidente»: gli pareva che il grande attore Jason Robards, forse l’unico uomo al mondo con un cipiglio più minaccioso del suo, l’avesse in qualche modo messo in ombra. E in effetti chi non ricorda Robards (che per questa interpretazione vinse l’Oscar) stravaccato sulla sedia, le gambe stese sulla scrivania durante le riunioni? Robards che sibila minaccioso a Robert Redford (Bob Woodward) e Dustin Hoffman (Carl Bernstein) che hanno appena commesso un errore «cercate di essere fortunati»? 
Un’altra leggenda del giornalismo americano dell’età dell’oro, Mike Wallace di 60 Minutes, carisma inimitabile e profilo da moneta romana, vide con dispiacere il film «The Insider» sullo scoop che mise all’angolo l’industria americana delle sigarette: per interpretare il ruolo di Wallace venne scelto Christopher Plummer, gigante del teatro classico e del cinema – esattamente come capitò a Bradlee con Robards, Plummer era probabilmente l’unico attore che poteva eclissare lo sguardo fulminante e la mascella squadrata di Wallace. 
Non stupisce allora, se Hollywood è così potente, che Barry Sussman, il «terzo uomo del Watergate» insieme con Woodward e Bernstein, sia morto dimenticato dall’America e dal mondo qualche giorno fa, a 87 anni, nella sua casa a Rockville, Maryland, poco lontano dalla capitale: nel film Sussman, che nella realtà ebbe un ruolo fondamentale, non c’è. Semplicemente, venne cancellato dallo sceneggiatore per motivi di scorrevolezza della trama: lui era il capocronista, certo, quello che assegnò la storia di quella effrazione negli uffici del Watergate a Woodward-Bernstein, il neoassunto stakanovista e l’anarchico bravissimo a far parlare le fonti, ma nella sceneggiatura troppo affollata c’erano già, durante le scene delle riunioni, oltre a Bradlee anche Howard Simons, il vicedirettore (interpretato da Martin Balsam, leggenda del teatro e straordinario caratterista per hollywood) e Harry Rosenfeld, vicecapo della cronaca metropolitana (nel film è il burbero ma bonario Jack Warden). Così, per semplificare la vita agli spettatori che già dovevano seguire la trama d’un thriller nel quale non ci sono sparatorie o inseguimenti ma lunghissime telefonate, Sussman fu eliminato. Era il suo destino: in origine, il libro Tutti gli uomini del presidente doveva essere firmato anche da lui, finché i suoi due reporter decisero che non gli serviva più un editor, e tagliarono Sussman fuori dal contratto (Sussman scrisse un libro tutto suo, che uscì qualche mese dopo quello dei colleghi, ebbe ottime recensioni e finì rapidamente fuori stampa, dove rimane tuttora). 
Disse Woodward – meglio tardi che mai – 32 anni dopo: «Il film è un racconto incredibilmente accurato di quello che è successo. Per limitare il numero di personaggi il ruolo di Barry Sussman è stato “fuso” con quello di un altro personaggio. È una cosa deplorevole: Carl Bernstein e io avremmo dovuto batterci per Sussman, che ebbe un ruolo fondamentale nel guidare e dirigere il nostro lavoro».
L’ammissione comunque non emozionò più di tanto Sussman, che aveva da allora tolto loro il saluto. A Alicia Shepard, autrice dell’ottimo libro Woodward And Bernstein: Life in the Shadow of Watergate del 2006, dichiarò laconico: «Non ho niente di buono da dire. Su nessuno dei due». Aveva anche minimizzato l’importanza di «Gola Profonda», la fonte segreta: «Ebbe un piccolo ruolo, è un mito creato dal cinema e cavalcato da Woodward e Bernstein». Secondo Shepard, Sussman era rimasto «traumatizzato». Inutile per lui continuare come capo, dopo le dimissioni di Nixon: creò e diresse la redazione del Post che analizzava i sondaggi. 
Nel 1987 lasciò il giornale che con lui era stato così poco generoso. Il passo d’addio, dal 2003 al 2012: una cattedra a Harvard. Piccolo prestigioso risarcimento per una carriera tanto straordinaria quanto avara di gloria.