Robinson, 11 giugno 2022
Al Mudec una mostra di LaChapelle
Non si può creare arte mentre c’è una guerra in corso, ripete David LaChapelle. Per fortuna, per spiegare il titolo della sua immensa retrospettiva al Mudec di Milano, I Believe in Miracles (fino all’11 settembre) l’artista non ricorre a frasi slogan come, ad esempio, la bellezza ci salverà. Dice, piuttosto, che sarà la cultura del bello a portarci a una nuova umanità. D’altronde sarebbe difficile, parlando di LaChapelle, ascoltare qualcosa di già sentito o vedere qualcosa di già visto. Le sue opere, pure se le abbiamo già osservate, amate e odiate sulle riviste di mezzo mondo, dal vivo mantengono l’effetto da prima volta. Merito, chissà, del loro sorprendente e ipercolorato surrealismo portato ai limiti di ciò che, almeno nell’arte, è concesso, ovvero qualsiasi cosa. A tal proposito, spoileriamo agli aficionados che sì, in mostra troverete tutto l’universo lachapelliano: da Eminem con una dinamite al posto del pene a Madonna in estasi mistica, da Courtney Love e Kurt Cobain in versionePietà di Michelangelo alla donna schiacciata da un cheeseburger gigante in un parcheggio di Los Angeles, e via dicendo.
Causa pandemia, dicono i curatori Reiner Opoku e Denis Curti, la monografica è nata a distanza e per allestirla ci sono voluti tre anni. Il risultato, sostiene Opoku, è una delle migliori mostre mai realizzate sul lavoro di La-Chapelle. Novanta e passa opere, quarant’anni di lavoro: dai primi, strepitosi, ragazzi-angelo immortalati in epoca Aids agli ultimi lavori, in ordine di tempo, sulle eliconie, omaggio alla pittrice Georgia O’Keeffe e a Maui, l’isola hawaiana dove LaChapelle vive in una sorta di ritiro spirituale. Una spiritualità, a detta sua, scoperta proprio in Italia, anni fa, dopo aver visitato la Cappella Sistina. Denis Curti, però, fa notare che viste una per una le opere di LaChapelle sono caratterizzate da una forte identità religiosa sin dagli esordi. «Quando avevo diciotto anni abitavo nell’East Village di New York – racconta l’artista – e sentivo l’urgenza di riuscire a portare a termine delle immagini che avevo in testa. Eravamo in un periodo di guerra, c’era l’Aids. Pensavo, in tutta sincerità, di non avere molta vita davanti a me e avevo bisogno di capire cosa fosse l’anima, come si potesse rappresentare. I miei amici morivano uno dopo l’altro e allora ho pensato di dar loro una vita simbolica attraverso gli angeli. Per farlo, mi rivolgevo ai miei amici, quelli vivi, con ali fatte a mano. Quello era il nostro Paradiso».
L’esistenza di LaChapelle è singolare. All’inizio della sua carriera, per mantenersi e per ottenere, dice oggi, la libertà di creare le immagini che lo hanno poi reso celebre, scattava foto ai matrimoni. Ha studiato per diventare pittore. Non ancora maggiorenne, dal Connecticut si trasferisce in quella giungla che era all’epoca New York. Fu Andy Warhol a scoprirlo. Dopo aver visto alcune sue foto, lo assunse aInterview. Da lì in poi la carriera di La-Chapelle è stata inarrestabile. «In quegli anni, non facevo altro che cercare una lingua di espressione che forse non era possibile trovare in quel momento – ricorda – perché c’erano tantissimi ragazzi, amici, che morivano. Questa paura incombeva su di me e mi dava una sensazione di fretta, di dover lasciare qualcosa in questo mondo. Fu in quel momento che mi avvicinai a Dio per la prima volta». A proposito di dei e divinità, e visto che qui si parla d’arte, è stato proprio La-Chapelle a scattare l’ultima fotografia in posa ad Andy Warhol. Nella mostra al Mudec lo scatto, ripetuto per sedici volte, fa da cornice a due omaggi che l’artista ha dedicato proprio al suo mentore: Marilyn Monroe ed Elizabeth Taylor, entrambe incarnate da Amanda Lepore, icona transgender e musa dell’artista, in due opere scattate nel 2002.
«In questi ultimi quindici anni – continua – ho avuto la stessa paura che avevo negli anni ’80. Mi riferisco a quel senso di urgenza: la nostra esistenza è minacciata, la natura stessa lo è, e il genere umano ha sempre piùpaura. Per questo motivo, nel corso degli anni, ho iniziato a rappresentare la sacra famiglia, a onorarla, a rivolgermi alle scene bibliche e a cercare di dar loro una nuova vita, ispirata dal senso della passione nuda e cruda, di una fede attraverso la quale io potessi raccontare queste storie che non nascevano dalla mia mente, ma dal mio cuore». Nel suo universo, s’intende, Gesù Cristo è Kanye West, Kim Kardashian è Maddalena e l’Ultima Cena è ambientata a New York, in un’allegra tavolata di afroamericani in tuta Adidas, i capelli rasta e i corpi tatuati. «Sono stato molto fortunato perché, nel corso di questo cammino ho potuto lavorare con degli amici. Sono stati loro ad aiutarmi a compiere i piccoli miracoli che danno il titolo alla mostra. Queste idee, attraverso la nostra fede, la devozione, il camminare nel bosco tutti insieme e pregare, si sono trasformate in immagini. Per questo motivo sostengo che in momenti di guerra è impossibile creare arte: la guerra è il contrario di tutti questi sentimenti» confida LaChapelle.
Non è questo il mondo che sognava da ragazzino. «Questo universo sta andando a pezzi e il compito di tutti è cercare di rimettere insieme i pezzi liberandoci dal materialismo, dall’ansia. La mia narrazione è, semplicemente, questa». La mostra non segue nessun ordine cronologico. Scivola, svelta, tra un decennio e un altro, per poi ritornare indietro e catapultare, di nuovo, il visitatore in queste bizzarre epopee piene di colore. Come una giostra a tutta velocità o un album musicale. È l’artista a suggerirci questa similitudine. «Le canzoni – conclude – si ascoltano per la prima volta e poi rimangono impresse nella mente. È come se non finissero mai. Ecco perché ho voluto, da sempre, portare questa luce nelle mie fotografie. E se suscitano emozioni, anche forti, anche contrastanti, io sono felice».