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 2022  giugno 11 Sabato calendario

Hernan Diaz ha scritto un romanzo sui soldi

«Lo affascinavano le contorsioni del denaro. Una cosa che si muove, mangia, cresce, si riproduce, si ammala e può morire». Benjamin Rask negli anni ’20 conosce a malapena il centro di Manhattan. Non gioca a scacchi né a bridge. La politica non gli interessa. Considera il lusso «un fardello volgare». Ama la finanza anche quando è difficile da governare: «La creatura cerca di esercitare il suo libero arbitrio».
Un americano molto ricco alla vigilia del 1929, quando la creatura davvero si ribellò facendo crollare la Borsa. Benjamin Rask ha la sua opinione in proposito. Non nasconde di aver accresciuto nella circostanza il suo già notevole capitale, convinto com’è che il profitto individuale vada di pari passo con l’interesse dalla nazione.
Soldi. Da quanto tempo non leggevamo un romanzo che parla di soldi? E da quanto tempo non leggevamo un romanzo che nel titolo dice al lettore «credimi, sto inventando una storia»? Trust ha a che fare con la finanza e con la narrazione, due faccende che a dire «sono la rovina di questi anni» si fa sempre bella figura. Il coraggioso scrittore si chiama Hernan Diaz: nato a Buenos Aires, cresciuto a Stoccolma, da una ventina d’anni vive a New York. Prima di deviare verso il romanzo, si era appassionato alla critica letteraria e a Jorge Luis Borges: Borges, Between Historyand Eternity.
Studiare i labirinti e i sentieri che si biforcano non è garanzia di saperlirifare. Solo i più bravi ci riescono, incastrando 4 storie – di differenti stili e lunghezze – in 370 pagine. Esposte alle accuse di appropriazione culturale: due voci sono femminili, parlano in prima persona. Il risvolto di copertina ne sceglie una che appare soltanto a metà romanzo: la letteratura ormai è delle donne, anche se il protagonista è un maschio bianco con una montagna di soldi.
Meglio leggere Trust nella sequenza scelta da Hernan Diaz – se ha costruito così il romanzo ha i suoi buoni motivi. Entriamo nella vita di Benjamin Rask, erede di una ricca famiglia che commerciava tabacco. Privo di altri interessi – in mancanza di meglio «fece esperimenti con l’ipocondria» finché «il tempo divenne un prurito costante» – licenzia il consulente finanziario incapace di azzardi e si mette in proprio. Prende moglie perché deve, fuori dal giro delle famiglie che contano. Invecchia, mentre il lettore si appassiona a un bel romanzo ricco di dettagli e di osservazioni brillanti.
Un romanzo “non autorizzato”, scopriamo poi. Quando prende la parola Andrew Bevel, irritato per le malignità che si scrivono su di lui. Avrebbe fatto crollare Wall Street per arricchirsi, giocando d’azzardo contro gli interessi degli Stati Uniti. Ne La mia vitapromette verità, su di sé e per difendere la memoria della defunta moglie Mildred. Senza negarsi un acido commento sulle generazioni: ognuna ha la sua idea di “vecchia New York”, e crede di esserne la legittima erede. Sacrosanta verità che da L’età dell’innocenza di Edith Wharton arriva all’ultimo film di Woody Allen Ungiorno di pioggia a New York.
«I miei antenati sono uomini-banca fin dalla Dichiarazione di Indipendenza» attacca Andrew Bevel. Il racconto è interrotto da spazi bianchi, e appunti che suggeriscono cosa sviluppare – l’amore della moglie per i fiori e per la musica, i concerti organizzati in casa, le opere di beneficenza. Piglio autoritario, da uomo più abituato al comando che a parlare di sé. Brutale nella sua analisi del 1929 (c’erano stati altri crolli prima, non era un’eccezione). Le persone non avevano paura di indebitarsi, dopo la lavatrice e il frigorifero cominciano a giocare in borsa: «Il 40% degli investitori dilettanti erano donne, i giornali popolari davano consigli accanto al cucito, la cucina e i pettegolezzi». Insiste Bevel: «Poteva esserci un indicatore più chiaro dei danni a venire?». I nemici hanno un’altra idea: la sua era «la mano dietro la mano invisibile» che secondo Adam Smith governa i mercati.
«Testamento filosofico. Ecc.» dice l’ultimo appunto, ricordando che tutta la nostra vita ruota attorno al profitto. Manca ancora parecchio alla fine di Trust, altro passaggio di testimone. Ida Partenza, settantenne figlia di un anarchico italiano. Da giovane aveva lavorato per Andrew Bevel, stenografando e poi battendo a macchina l’autobiografia che abbiamo appena letto. In realtà, costruendola passo passo, leggendo per ispirazione le biografie dei grandi americani.
Ottimo apprendistato per la futura scrittrice. Di nascosto dal padre, convinto che il denaro sia una finzione perfino più pericolosa delle religioni, chi se ne occupa è un criminale. Ida viene scelta tra molte aspiranti, con una certa sorpresa scopre che Bevel ha più macchine calcolatrici che dattilografe. Ma il miliardario prima e la sua ghost writer poi concordano su un’idea: la scrittura costruisce il mondo, non si limita a riprodurlo.
Ultimo passaggio di testimone: la defunta consorte di Andrew Bevel ha lasciato un diario. Bisogna però trovarlo, e decifrarlo. La verità vera finalmente? Non è detto, potrebbe essere deformato da una vena di pazzia familiare. Hernan Diaz governa con gusto da ventriloquo le sue trame romanzesche. E poliziesche: i personaggi leggono troppi gialli, perché lo scrittore resista alla tentazione di costruirne uno sotto i nostri occhi.