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 2022  giugno 11 Sabato calendario

Intervista a Maylis de Kerangal

Una scrittrice europea all’apice della forma, che torna con un romanzo satellitare e quasi americano: Maylis de Kerangal, l’autrice francese del fortunato Riparare i viventi, è l’incarnazione della letteratura d’esplorazione, che finge di stare sulla geografia e lo spazio per restituire invece il suono di una camera interiore. Perché il «mondo va romanzato per essere decifrato».
Leggere “Canoe” è stato come attraversare una quieta turbolenza. Appena l’ho finito, non sono riuscita a «ritrovarmi» subito. Credo che il mio disorientamento dipenda da certe abitudini di lettura: il romanzo si affida molto al prima e al dopo, al legame causa-effetto tra i personaggi. Le raccolte di racconti invece insistono spesso sulle differenze e la separazione tra le varie parti. “Canoe” sfugge a entrambi i modelli. Per me è un libro fatto di “respiro” più che di tempo e conseguenze. È come se ogni storia inspirasse ed espirasse da “Mustang”, che sta al centro.
«Sono molto sensibile all’idea del respiro. Il libro prova a ricreare la voce umana e dunque non può essere altro che respiro, un modo per far sentire una particolare vibrazione. L’ho scritto durante il primo lockdown della pandemia, un periodo in cui il nostro sistema respiratorio era attaccato dal virus, le nostre bocche erano coperte e le nostre voci filtrate. Un periodo in cui le voci telefoniche si sono reimposte nelle nostre vite, dato che non eravamo più vicini o in grado di toccare e raggiungere i corpi. Ho concepito Canoe come un romanzo in parti: una novella centrale, Mustang, con attorno sette testi satellitari. Sono tutti connessi, comunicano tra loro. Per me non è una raccolta di racconti eterogenei e giustapposti, ma è un testo unico che prova a sondare la natura della voce umana, la sua materialità, i suoi poteri, e che vuole comporre una specie di mondo vocale, carico di echi, vibrazioni e tracce di rimanenza. Ci sono dei motivi che circolano da un testo all’altro, ricreando il fenomeno del riverbero: uccelli, scimmie, apparecchi radio, la presenza della morte, un bambino dagli occhi scuri, un prato».
Lo stile che hai scelto per modellare le donne del romanzo è intensamente fisico. E ovviamente una “voce” è molto fisica, appartenendo alla bocca, ai polmoni, ai movimenti del corpo. Come mai hai scelto di trasformare la voce in un personaggio ricorrente, un presenza fantasmatica che evoca certe idee sull’intimità e lo straniamento nel corso di una vita? La voce è qualcosa di incorporato e inseparabile da una certa persona, una specie di carta d’identità privata e speciale, eppure quando parliamo di letteratura e scrittura, ecco che il concetto di “voce” si fa molto astratto (ogni scrittore deve trovare la propria voce!), un’entità quasi trascendente e sacra che discende su certi individui e solo su di loro. Sono rimasta colpita da questa flessibilità tra la corporeità e la trascendenza della voce.
«Per me Canoe sta in questo salto, nello spazio che separa la voce materiale e organica e la voce incorporata, interiore. Mi piace l’idea che la voce sia fisica: il corpo è subito lì. È un muscolo: due piccole corde alla base della trachea che vibrano a tutta velocità! Ma allo stesso tempo la voce racconta la storia della specie umana: è antropologica, sociale, politica. Trasporta allo stesso tempo la traccia della nostra animalità e molti aspetti di genere, del potere, la famosa questione dell’«accento» straniero. Ma a commuovermi davvero è il fatto che una voce sia un dato così intimo e personale, proprio come le impronti digitali e il Dna. Ci sono sette miliardi e mezzo di voci sulla Terra, ma ognuna ha il suo timbro, un tono, un ritmo; ogni voce crea e fa sentire l’irriducibile singolarità di chi parla. Per questo motivo, per me la voce è l’organo dell’incarnazione. Ha il potere stupefacente e magico di «riportare» qualcosa, di restituirlo e di reimporlo, di renderlo presente tramite diversi supporti tecnici, ma soprattutto tramite la memoria: fa tornare chi parla. Ed è per questo che la voce dei morti è così disturbante: la loro voce è sempre al presente. Come se fossero ancora vivi. In questo senso trascende la sua materialità e diventa un’eco, un riverbero, una luminescenza a posteriori. Lo trovo molto misterioso. Nella scrittura, la questione della voce è sempre centrale: significa catturare una frequenza, far sentire un respiro, trattenere una nota in tutto il libro. Da lettrice, quando apro un testo, voglio sentire una voce».
In “Mustang” compare una parola rivelatoria, quando la narratrice dice che lei, il figlio piccolo e il compagno stanno circolando in una “infra-fiction segreta” mentre stanno in macchina. Immagino si riferisca all’inter-connessione tra i personaggi e i vari livelli del paesaggio americano di cui fanno esperienza, tra osservazioni in tempo reale e i loro ricordi cinematografici dell’America. Ma infra-fiction è anche il modo più felice per descrivere il tuo stile di scrittura in questo libro, dove prevale un’attenzione a raggi infrarossi per tutti gli aspetti che circondano una donna nella sua vita.«Volevo ci fosse questa corrispondenza tra stile e storia. Mustang parla di un soggiorno americano in Colorado, dove ho scritto il primo testo di Canoe. È un testo di matrice autobiografica. La donna che racconta guida una Ford Mustang, è smarrita in un paesaggio che rievoca la conquista del West, i film western, il cinema. Ma adesso sullo schermo c’è lei. Si confronta con un territorio e un linguaggio, e vaga per conto suo. Impara a modellare la ceramica, prende la patente, canta a perdifiato in macchina: inizia a scrivere un romanzo. Volevo mostrare come la fiction contamina la realtà, come si dispiega in una situazione di crisi, di fragilità e divergenza. È stata un’occasione per farmi dire che il mondo dev’essere romanzato per essere decifrato, e persino per essere pensato».
La sensazione che sia un romanzo a infra-rossi deriva anche dalle immagini e le parole che hai scelto di usare. C’è un’estrema attenzione agli apparati tecnici e naturali. Ci sono onde radio, denti e minerali; tutto diventa magnetico. Oggi il filtro dell’ecologia viene applicato un po’ dappertutto quando si analizza la letteratura contemporanea; pare che ogni romanzo sia o debba essere sul cambiamento climatico, la trasformazione dell’ecosistema. “Canoe” ha una fortissima sensibilità atmosferica, ma è più silente e meno sociologica. Non so quanto ti rivedi in questo, ma il tuo vocabolario è in forte sintonia con spazi e geografie che mutano.
«C’è sicuramente l’urgenza di descrivere e di continuare a descrivere il mondo. In questo senso ho fatto un gesto preciso, cioè descrivere il laboratorio della mia scrittura dove la questione dello spazio e della superficie è centrale. In Mustang, lo spazio è problematico perché appartiene al grande spazio americano, un luogo molto familiare nella fiction, ma è anche un mondo abbandonato e arreso alle macchine e ai parcheggi, un mondo che può essere esplorato solo in macchina. Lo spazio che aleggia in questa storia è tormentato da un vuoto: è uno spazio che è stato svuotato di Nativi americani. Oggi resta un cestino intrecciato da esibire in un museo, un cestino che rievoca quello dei raccoglitori del Paleolitico, o il recipiente della fiction (direbbe Ursula K. Le Guin, che non a caso viene citata in apertura di Mustang, ndr). Il romanzo come raccoglitore. Per me il romanzo e i racconti aprono uno spazio di ricerca sufficientemente vasto per provare a occupare la posizione dell’altro, qualsiasi sia la posizione di questa persona nel campo del vivere. Il mio lavoro trae origine dallo stupore che avverto quando subisco un’«iniziazione» al mio linguaggio, quando mi apro al mio linguaggio: mi piace andare alla ricerca di vocabolari smarriti e di lingue impure, e scrivere nel dettaglio. Opto per una semantica che coinvolge attivamente la memoria, la memoria di mondi perduti e dimenticati. Provo a mettere in pratica una letteratura dell’attenzione».
La meraviglia delle tue voci coincide con una realtà evidente: le canoe non sono barche. Sono mezzi più agili, meno ingombranti ed “epici” per tanti aspetti, meno appesantiti dall’idea di un lungo viaggio e di una destinazione. Andare in canoa è come essere dei flâneur in acqua, spostandosi tra passages liquidi. Questo incoraggia una percezione diversa del tempo, della contemplazione. Mi parleresti un po’ di queste canoe e di che rapporto hanno con la tribù di donne che descrivi?
«È proprio così: per me la canoa implica un’idea di leggerezza, fluidità e velocità. Associata a una certa grazia. È un’immagine intensamente poetica per me. Costruite con la corteccia delle betulle, le canoe della regione dei Grandi Laghi in Canada hanno permesso ai Nativi americani di viaggiare nei loro territori seguendo le ramificazioni di una complessa rete idrografica, e di trasportare messaggi catturando il flusso delle correnti. Le canoe sono leggere, flessibili e ingegnose. Mi piace l’idea di navigare seguendo i flussi e catturando le correnti. La prima volta che sono andata in Canada sono tornata a casa con una canoa! Le canoe sono come le voci: entità materiali che trasportano parole. Ho immaginato ogni storia e testo in questo libro come una canoa, un contenitore, una specie di cestino per far circolare beni materiali, uno strumento di passaggio e un movimento, per finire con una veglia impressa sulla superficie dell’acqua».